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Cabo Delgado: da conflitto locale a conflitto internazionale cronico?

Marco Tamburro

Pochi giorni fa, durante il summit US-Africa, il presidente Nyusi si e’ espresso a favore di ‘’una soluzione africana per un problema africano’’, quello di Cabo Delgado, ma preoccupa lo stato delle operazioni attuali e il sostanziale immobilismo a livello di risultati militari

Nel 2023, il numero della poplazione del nord del Mozambico che necessitera’ di aiuto umanitario aumentera’ a 2.1 milioni secondo il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite (HRP, humanitarian response plan 2023), con un bisogno di finanziamento di piu’ di 500 milioni di dollari.

Sfiorando l’1.5 milioni di dislocati interni, il conflitto non sembra avere una soluzione a breve termine e, anche se i lavori per l’infrastruttra per l’estrazione e esportazione del gas nella zona di Afungi dovessero ripendere, non sembra esserci una soluzione politica al conflitto.

Se nel 2021 l’intervento del Rwanda aveva fatto registrare grandi progressi militari, gli attacchi nel sud di Cabo Deglado e dei rapidi attacchi a villagi remoti nella Provincia di Nampula hanno ormai portato il conflitto in una fase di confronto militare permanente, non limitato ad aree particolari ma esteso a tutto il Nord, e ad una serie di risultati positvi per l’una e per l’altra parte. L’impegno del contingente SAMIM dei Paesi della SADEC e il contingente rwandese non sembrano essere piu’ sufficienti nel contrastare le tattiche di guerriglia dell’ISIS Mozambico.

Questa escalation di attacchi e la sostanziale impreparazione delle forze regionali sudafricane sembrano portare il conflitto ad assumere le caratteristiche di una crisi cronica, alla viglia del sesto anno di crisi.

Accanto ad una risposta militare inadeguata, esiste ache una cronica mancanza di leadership delle autorita’ nazionali rispetto alle soluzioni politiche del conflitto, senza una vera e propria leadership decentralizzata che riesca ad avere un approccio chiaro e metodlogico coinvolgendo tutti i vari attori del conflitto; il Governo sembra solo perseguire l’obiettivo principale della ripresa delle attivtia’ della TOTAL, dopo essersi fregiato del risutlato della prima esportazione ufficiale di gas dagli impianti di Nampula, per il progetto, mai interrotto, gestito da ENI e Exxon Mobile.

Per l’estremo nord, la soluzione sembra tutt’altro che vicina, e la politica internazionale non sembra avere ancora Cabo Delgado al centro dell’agenda, ne’ politcia ne’ militare; ovviamente, anche questa crisi ‘’glocale’’ e’ offuscata dalla crisi ucraina che non puo’ che distogliere l’attenzione dalle altre guerre, sopratutto quelle piu lontane dallo scacchiere eurasiatico.

La domanda e’ che cosa ci si puo attendere er il 2023? Tentando di fare alcune ipotesi, lo scenario potrebbe: cambiare rispetto agli esiti del conflitto ucraino, nel caso di una soluzione, Cabo Delgado potrebbe guadagnare in visiblita’, esponendo il Paese ad una maggiore attenzione e maggiore aiuto, ma anche piu responsabilita’ del Governo, tenendo in considerazione anche il ruolo del Mozambico nel consiglio di sicurezza dell’ONU per un semestre; arrivare ad un impegno finanziario maggiore dell’UE, portando fondi direttamente per l’aumentare lo sforzo bellico del Rwanda e/o del contingente SAMIM; continuare in una sostanziale mancanza di leadership del Governo per la situazione del dislocati e confidare nel ruolo di assistenza tecnica e leadership tecnica delle varie agenzie UN e donatori internazionali.

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Targhe per allodole

Enrico Strina

Prosegue la tensione tra Serbia e Kosovo. L’ultimo episodio è quello dell’obbligo, imposto dal governo del premier kosovaro Kurti, di dover reimmatricolare le automobili di residenti sul territorio kosovaro con targhe kosovare, eliminando così la possibilità di poter circolare anche con targhe serbe.

È finita la pace a Mitrovica (se mai ce ne fosse stata una). È finita la pace sul territorio kosovaro. Non che sia una novità da queste parti: come dicono quasi tutti gli ex jugoslavi, per loro la la pace è semplicemente il momento in cui è assente la guerra. E pensare che il “momento felice” durava ormai da circa tre lustri: dopo la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, fortemente sponsorizzata e “nutrita” dai paesi occidentali (Usa in testa), nel neo-stato incastonato tra Serbia e Albania si respirava un’aria di calma apparente, pur sempre migliore dei venti di guerra e degli spari utilizzati come forma di minaccia contro il vicinato.

Il discorso sulle targhe, emerso a inizio a novembre 2022, affonda le sue radici nei difficili negoziati seguenti l’Accordo di Bruxelles del 2013: quasi dieci anni dopo Albin Kurti – premier fortemente indipendentista con una marcia che va più veloce anche dei paesi Nato che monitorano preoccupati la situazione – ha deciso di rispolverare questo mai completamente attuato (leggasi ben poco attuato) documento per risvegliare un po’ la situazione. L’Accordo prevede una progressiva “normalizzazione” (o “kosovizzazione” a seconda del punto di vista) dello Stato, all’epoca dichiaratosi indipendente da circa 5 anni. La “normalizzazione” interviene su alcuni aspetti burocratici e organizzativi del Kosovo: prescrive infatti il passaggio di tutto il territorio – a livello istituzionale – sotto il pieno controllo di Pristina. Tutte le enclave e i comuni del nord a maggioranza serba devono quindi a breve rinunciare anche alla possibilità di emettere documenti di identità e anche le targhe automobilistiche. Contemporaneamente, per far sì che i serbi possano mantenere un certo grado di autonomia, nell’Accordo di Bruxelles c’è anche la creazione di una Associazione di municipalità serbe, una specie di consorzio in cui le varie comunità della parte settentrionale del Kosovo possano dialogare e continuare a preservare le proprie specificità.

Qui si è creata la frattura: mentre Kurti ha continuato a spingere sul discorso targhe, forte dell’autorità governativa, la creazione dell’Associazione dei comuni di lingua serba è stato relegato nell’angolino delle cose da fare (forse) in futuro. A quel punto è iniziata la risposta della Srpska Lista, il partito della comunità serba del Kosovo: circa tremila tra sindaci, consiglieri comunali, assessori, dipendenti comunali di origine serba si sono dimessi nel giro di poche ore, lasciando scoperti interi municipi. Da Pristina è arrivata la subitanea indizione di nuove elezioni per rimpiazzare il personale dimessosi, contestate dalla parte serba, tanto che le votazioni (previste per il 18 dicembre scorso) sono state rinviate ad Aprile 2023.

Soltanto dopo un mese di empasse, all’inizio di dicembre, le due parti – aiutate dalla mediazione dell’UE – sono giunte a un compromesso temporaneo: Belgrado non rilascerà nuove targhe ai serbi del Kosovo, mandandole così a esaurimento. I kosovari non sanzioneranno chi girerà con le targhe serbe.

Il compromesso non ha però risolto le tensioni: i blocchi stradali presenti in molte città di lingua serba proseguono. A Mitrovica in particolare sono segnalate barricate e il ponte sull’Ibar è tornato ad essere un luogo nevrotico e pieno di veicoli blindati della KFOR e di pattuglie della polizia kosovara.

Descritta in questo modo, sembrerebbe un pigiare sull’acceleratore solo da parte kosovara, ma non è così.

Da qualche mese infatti anche il presidente serbo Vucic ha ricominciato a sventolare il fantasma della Risoluzione 1244. Utilizziamo la parola “fantasma” non a caso: la Risoluzione 1244 è datata 1999 e risale alla fine dei bombardamenti Nato contro Belgrado. Nella Risoluzione si sottolinea che, dopo aver liberato il territorio kosovaro, “un numero concordato di personale jugoslavo e serbo sarà autorizzato a ritornare per svolgere le seguenti funzioni: collegamento con la missione civile internazionale e con le forze internazionali di sicurezza presenti sul territorio, individuare/bonificare terreni minati, mantenere la presenza nei luoghi del patrimonio culturale serbo, mantenere la presenza nei principali valichi di frontiera”. Un testo assolutamente anacronistico oggi (a quasi 24 anni dalla sua scrittura), come si vede da molti termini oggi ormai decaduti (Jugoslavia?) e dalla stessa proclamazione dello stato del Kosovo. Sul fuoco della Risoluzione 1244 iniziano a spingere anche i media serbi: in particolare Radio Slobodna Evropa richiama sull’attuazione di questa e ogni tanto lancia “fondate ipotesi” su eventuali bozze di accordo tra UE e Kosovo in cui si dichiara un rapporto paritetico tra Kosovo e Serbia. I media dell’odio sono pronti a ricominciare con quella diffusione di fake news che ebbero un loro importante ruolo anche nel conflitto di inizio anni ‘90.

Le targhe, insomma, sono soltanto lo specchietto per le allodole di una situazione molto complessa e, non va trascurato, molto pericolosa in quel punto dell’Europa a metà tra Mediterraneo ed Europa orientale.