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USAID ed Europa: perché la chiusura di USAID è un ulteriore atto di sfida all’Europa

Marco Tamburro

L’83% dei programmi gestiti dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID), in un’epurazione da sei settimane, ha ufficialmente eliminato interi programmi di assistenza emergenziale e per lo sviluppo che avevano richiesto decenni di lavoro.

Il Segretario di Stato Marco Rubio ha annunciato i massicci tagli lunedì, confermando che circa 5.200 dei 6.200 programmi globali di USAID sono stati chiusi. Le iniziative superstiti – meno di un quinto del precedente portafoglio di aiuti americani – saranno assorbite dal Dipartimento di Stato. ‘’ Finanziamo i programmi indipendentemente dal fatto che siano allineati o meno con la politica estera. È ridicolo…’’ : ovviamente dipende dalla prospettiva e i criteri che si usano, considerando che gli Stati Uniti hanno ‘’scelto’’ di investire circa 9.9 miliardi di dollari solo nel 2024 per i piani di risposta umanitari elaborati dalle nazioni Unite in tutto il Mondo che sicuramente non influivano direttamente sulla politica americana, ma miravano a salvare milioni di vite attraverso programmi d’urgenza.

Si potrebbero citare anche i cento miliardi complessivi investiti nel programma PEPFAR creato da George W. Bush e che ha sempre ricevuto un voto bipartisan al suo finanziamento. La nuova amministrazione ha annunciato la sospensione degli aiuti in concomitanza con l’ordine di ritirare gli Stati Uniti dal coordinamento globale sui programmi sanitari e climatici e con la minaccia di coinvolgere gli alleati europei in una guerra commerciale. La decisione è legata comunque anche al panorama di politica interna, considerando la priorità dell’amministrazione Trump di ridurre la macchina e le spese federali.

L’improvviso congelamento degli aiuti esteri statunitensi è diventato un chiaro avvertimento del cambiamento dell’approccio degli Stati Uniti all’impegno globale e fa pressione sui governi europei per contenerne le conseguenze. Collettivamente, l’Unione Europea è tra le maggiori fonti di aiuto allo sviluppo del mondo, con oltre 52 miliardi di dollari all’anno. Sul breve periodo, forse la mossa può effettivamente essere interpretata come una sfida indiretta all’Europa che potrebbe dover aprire un nuovo fronte di negoziati e sforzi politici e finanziari, per colmare il gap lasciato scoperto dai fondi americani, soprattutto sul continente africano.

Dall’altra parte, uno scenario possibile, per quanto cinico e molto poco etico, potrebbe vedere gli Stati Uniti tornare a negoziare in bilaterale con ogni partner africano dei possibili aiutati ma legati alle concessioni sulle risorse naturali di ogni stato e i vantaggi economici delle imprese americane.

In questo caso l’Unione Europea si troverebbe a intrattenere rapporti con gli Stati africani ma in competizione con la nuova postura statunitense votata solo agli affari, finanziare le ONG e le Nazioni Unite per i programmi umanitari e di sviluppo senza offrire i vantaggi economici che il competitor americano offrirebbe. Con una disponibilità finanziaria sempre più ridotta a fronte del nuovo riarmo sul fronte dell’Est Europa, l’Unione Europea dovrà dimostrare molta unione e anche cercare di coinvolgere più direttamente dei Paesi che potrebbero parzialmente sostituirsi agli Stati Uniti nel finanziamento dei programmi di sviluppo e emergenze, come Emirati Arabi, Qatar e Arabia Saudita.

Questi Paesi, in realtà, hanno già aumentato i loro contributi e coinvolgimento nell’assistenza umanitaria, come l’Arabia Saudita che ha contribuito nel 2024 con 1.2 miliardi di dollari ai piani di risposta umanitari, seguita anche dagli Emirati Arabi con 787 milioni, il Qatar con 483 milioni e il Kuwait con 51 milioni[1].

Diversificare gli interlocutori e aprire nuove forme di finanziamento e dialogo sembra essere l’unica strada per l’Unione Europea per far fronte alla nuova aggressività e ostilità americana, che ridisegna il panorama internazionale.

Marco Tamburro


[1] https://fts.unocha.org/global-funding/donor-grouped/2024?order=total_funding&sort=desc

M23 i

Crisi in DRC: chi sono gli M23 e le mire espansionistiche del Rwanda

Marco Tamburro

L’offensiva su Goma, nel Nord Kivu, da parte dell’M23 è stata lanciata a gennaio ed è sostenuta, ancora una volta, dal Rwanda. La presa della capitale del Nord Kivu è durata dal 23 al 30 gennaio. L’offensiva fa parte della più ampia campagna espansionistica dell’M23 nelle province del Nord e del Sud Kivu della RDC, ripresa nell’ottobre 2024 dopo una pausa. Nel gennaio 2025 i ribelli dell’M23 hanno compiuto una rapida avanzata nelle regioni del Kivu, prima conquistando Goma e poi Bukavu nel Sud Kivu. Mentre si allarmano i vicini Uganda e Burundi, anche gli organi Istituzionali come l’Unione Africana e gli Stati del sud est (SADC) sono alla ricerca di una mediazione politica. Al di là del noto supporto rwandese, l’M23 è un’organizzazione paramilitare. È storicamente considerata filo-ruandese per la presenza maggioritaria di tutsi, e parte del gruppo dell’Alleanza del fiume Congo (AFC). L’M23 è composto da ex ribelli del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) integrati nell’esercito congolese in seguito all’accordo di pace firmato il 23 marzo 2009 tra il CNDP e Kinshasa, che si sono poi ammutinati nell’aprile 2012, ritenendo che il governo congolese non stesse rispettando i termini dell’accordo.

Già nel 2012, i ribelli dell’M23 hanno conquistato gran parte del Nord Kivu e il 20 novembre 2012 già presero il controllo di Goma. Questo atto di guerra scatenò una forte mobilitazione della comunità internazionale per evitare una nuova deflagrazione nella regione. Durante la mediazione che ha riunito i Paesi africani dei Grandi Laghi, si raggiunse un accordo per il ritiro dell’M23 da Goma, in cambio dell’apertura di negoziati con le autorità congolesi.

Nel novembre 2021, l’M23, che fino ad allora era rimasto discreto, è tornato attivo nella Repubblica Democratica del Congo e, dal 2022, ha intensificato la sua offensiva nella regione del Kivu, prendendo il controllo di aree strategiche.

Ovvio però, che la presenza militare dell’M23 e del suo leader, non distolgono l’attenzione da quello che è il vero protagonista della strategia dietro i recenti attacchi, cioè Paul Kagame. L’Est del Congo è ricca di minerali e altre risorse naturali, e la presenza di gruppi armati e scarso controllo da parte del governo di Kinshasa, rendono molto più facili il controllo e l’esportazione illegale di queste risorse.

Incredibile il fatto che il Rwanda, che sarebbe in teoria poverissimo di coltan, sia un grand esportatore verso l’UE, tanto da aver sottoscritto un accordo con la Commissione europea nel febbraio 2024[1].

Il 13 febbraio, il Parlamento europeo ha votato a larga maggioranza per sospendere un accordo di cooperazione con il Ruanda su un trio di minerali fondamentali (The so-called 3T minerals — tin, tungsten, tantalum) per la transizione energetica pulita, citando i loro legami con le violenze in corso nella Repubblica Democratica del Congo.

Le collaborazioni fra l’UE e il Rwanda non finiscono qui, e gli imbarazzi dell’UE riguardano anche i 320 milioni di euro su climate-proof cities, 100 milioni su educazione primaria, e i 21 milioni per la missione rwandese nel Nord del Mozambico a protezione del gasdotto TOTAL, che dovrebbe poi rifornire anche l’UE nella sua strategia di diversificazione di approvvigionamento.

Risorse naturali, gas, Unione Europea ed etica, non vanno sempre d’accordo.

Marco Tamburro


[1] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_24_822

Burundi

Venti di colpo di Stato in Burundi: la fragilità dello stato e l’effetto Rwanda

Marco Tamburro

L’offensiva verso la capitale della provincia del Nord Kivu, Goma, da parte dell’M23, è stata rilanciata a gennaio di quest’anno dopo diversi mesi di calma apparente. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali, l’apparato militare dell’M23, moderno e sofisticato, viene finanziato da tempo dal Rwanda. Ci sono voluti solo pochi giorni, fra il 23 e il 28 gennaio, per prendere prima l’aeroporto e poi i punti chiave di Goma. Ai primi di febbraio, è toccato poi anche a Bukavu, capitale del Sud Kivu, cadere nelle mani dei ribelli rwandesi con una precipitosa ritirata anche degli altri contingenti burundesi e sudafricano.

Se l’Unione Africana e la SADC hanno cercato di avviare dei negoziati direttamente col Rwanda per cercare una soluzione diplomatica, la regione resta una grande polveriera. Se il Rwanda ha delle chiare mire sul controllo dei Kivu per ragioni di sicurezza interna e grande presenza di materie prime, dall’altra parte il Burundi si trova in una posizione di estrema fragilità: geograficamente, al momento il Burundi si trova con un movimento pro-Rwanda come l’M23 alle porte del Paese dislocato su tutta la frontiera, oltre al confine chiuso da tempo col Rwanda. Facile immaginare come l’M23, se volesse, avrebbe facile accesso a vari punti della frontiera fra Rwanda e Burundi per sfruttare la debole presenza dell’esercito burundese in vari punti. Se però, a questo punto, un attacco imminente non sembra essere previsto, potrebbe anche non essere necessario se si volesse arrivare, in un altro modo, ad avere un nuovo regime politico molto più favorevole a Kigali. In Burundi, una storica minoranza tutsi ha in mano la maggior parte dell’economia e dell’esercito, a fronte della maggioranza della popolazione di etnia hutu. Inoltre, c’è da considerare anche la presenza della milizia Red-Tabara (Résistance pour un État de Droit au Burundi), milizia ribelle formatasi nel 2015 in seguito alla crisi politica del Paese e sostenuta sempre dal Rwanda.

In questo quadro la leadership hutu del Burundi, guidata da Évariste Ndayishimiye, sente tutta la pressione che si aggiunge alla precaria situazione del Paese: penuria di carburante, potere di acquisto delle famiglie sempre più ridotto, malnutrizione cronica e insicurezza alimentare esacerbati dal rifiuto politico di riconoscere questa situazione come vera crisi umanitaria.

In questo quadro ONG e agenzie UN lavorano da diversi anni per mitigare la crisi cronica del Paese, ma sono anche attenti alla sicurezza del loro personale se la situazione dovesse precipitare. Proprio per questi motivi, a metà febbraio, la rappresentante del programma alimentare mondiale (WFP) aveva diffuso delle istruzioni di sicurezza interne al PAM sui social media. In queste istruzioni, il WFP invitava il suo personale a fare scorte di cibo, acqua e carburante per due settimane; una raccomandazione ritenuta allarmistica dalle autorità burundesi, che l’hanno vista come un tentativo di seminare il panico tra la popolazione. Per questo motivo, Il governo ha deciso di espellere la rappresentante del WFP, e la responsabile della sicurezza dell’organizzazione che hanno lasciato il Paese il 14 febbraio.

In questo clima, è facile percepire che la presenza delle forze burundesi prima sul territorio dell’RDC e poi in posizioni difensive, oltre alla presenza del contingente sudafricano che si è ritirato dall’RDC, continuino a generare tensioni col Rwanda; nonostante ciò, il 3 febbraio, il presidente Ndayishimiye ha annunciato un patto di non belligeranza che dovrebbe scongiurare un’aggressione del Rwanda, ma non si sa se questo includa anche l’M23. La tensione però non diminuisce infatti, il 27 febbraio, durante un comizio pubblico a Bukavu, alla presenza di Corneille Nangaa, leader dell’M23, due distinte esplosioni hanno fatto undici morti; il leader dell’M23 ha affermato che le granate utilizzate nelle esplosioni sono dello stesso tipo di quelle usate dall’esercito del Burundi nella RDC.

Nei prossimi mesi, sarà ovviamente fondamentale capire quale sarà l’evoluzione del conflitto fra M23 e RDC, se le Istituzioni internazionali sanzioneranno il Rwanda e se gli altri attori regionali saranno in qualche modo colpiti da conseguenze indirette. Nello specifico contesto del Burundi, si delineerà meglio quale anima riuscirà a migliorare la posizione del Paese, se si arriverà ad una normalizzazione dei rapporti col Rwanda o se la questione etnica esacerberà i conflitti interni come in passato.