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Sudan: il conflitto ‘’dimenticato’’ e la dimensione ultra-regionale

Marco Tamburro

Il conflitto tra le Forze paramilitari dell’ RFS e le Forze Armate Sudanesi (SAF) infuria ormai da quasi nove anni con migliaia di vittime sia tra i militari che tra i civili. Secondo le Nazioni Unite questo conflitto ha dato origine alla maggiore crisi di sfollati mai registrata a livello globale.

Dallo scoppio del conflitto, il 15 aprile 2023, oltre 5,2 milioni di persone hanno dovuto abbandonare le loro case in Sudan, di questi oltre 4,1 milioni rimangono sfollati all’interno del Paese mentre la restante parte cerca sicurezza verso la Repubblica Centrafricana, l’Etiopia, e il Ciad.

L’ assoluta mancanza di sicurezza causata dall’aspro conflitto impedisce in molte parti del Paese, l’accesso umanitario delle agenzie delle Nazioni Unite che temono nuove perdite umane come gia accaduto a Karthoum nelle prime settimane del conflitto.

Il Sudan, viene da una lunga storia di insatbilita, fatta di colpi di stato e transizioni democratiche poco durature: Tra il 1958 e il 1989, diversi Governi sono stati rovesciati da regimi militari, l’ultumo con Al Mahdi che si era visto costretto a cedere il potere a Bashir nel 1989. In questo scenario di forte instabilità, l’esercito ha sempre giocato un ruolo centrale nella storia del Sudan. Conscio del potere dell’apparato militare, il presidente Bashir lo ha sfruttato e manipolato per i suoi interessi, rafforzandolo ma al tempo stesso dividendolo al suo interno, usando la cosiddetta ’’coop proofing strategy’’, dove ognuno controlla l’altro.

Bashir si servi’ dell’esercito regolare (SAF) per cercare di spezzare la resistenza del Sud Sudan nella lunga e sanguinosa guerra civile per l’indipendenza.

Al tempo stesso nel 2003 in Darfur, a causa dello scarso supporto del Governo, i disordini e le proteste della popolazione aumentarono fino allo scoppio di disordini guidati dai gruppi ribelli del Movimento per la Liberazione del Sudan (Sudan Liberation Movement, SLM) e dal Movimento Giustizia ed Uguaglianza (Justice and Equality Movement, JEM). Vista la situazione di crisi,  Bashir si servi’ del coordinamento militare del SAF affiancato dai paramiliatri Janjaweed. Questi ultimi, in breve tempo si macchiarono della distruzione di almeno 3.000 villaggi nel Darfur e altri orrendi crimini come esecuzioni sommarie e stupri che spinsero la popolazione del Darfur a fuggire verso il vicino Ciad.  

Dalle brutali azioni dei Janjaweed emerse la figura di Mohamed Hamdan Dagalo (Hemeti), come leader militare che Bashir considero’ chiave per la sua protezione personale e per controllare le forze regolari militari.

Solo nel 2011, il Sud Sudan al costo di centinaia di migliaia di vittime, riesce nell’impresa di rendersi indipendente. Ciò indebolirà la posizione di Bashir che con la perdita del conflitto ha perso anche la possibilità di accesso a molte risorse strategiche, facenti ora parte del territorio del neo nato stato.

La perdita del conflitto ebbe anche effetti diretti sulla persona del Presidente. Sempre più ossessionato dalla propria sicurezza, arriva ad inquadrare le forze speciali e i Janjaweed nell RSF (rapid support forces) sotto al guida di Hemeti, ma supervisionati dal NISS (i servizi segreti nazionali).

Hemeti non diventa importante solo come comandate militare e protettore del Presidente, ma riceve autonomia finanziaria nel gestire traffici illeciti di armi con Egitto, Libia e Ciad, oltre ad essere detentore dei dirtti di estrazione di varie miniere in Sudan e gestisce anche altri affari nel campo delle telecomunicazioni.

Come conseguenza della perdita del Sud Sudan e della gestione dello Stato che mira ad allocare quasi il 70% del budget dello Stato alla sicurezza, Bashir deve confrontare una grande ondata di proteste della societa’ civile influenzata anche dagli eventi delle primavere arabe del Nord Africa.

Quando nel 2019 Bashir, ormai travolto dalle circostanze e senza più una visione politica degli eventi decide di reprimere i moti con la violenza, gli stessi uomini che assicurano la sua protezione capiscono che non è più in grado di guidare il paese e ad aprile dello stesso anno supportano il colpo di Stato che consegnerà l’ormai ex presidente alla Corte Penale Internazionale per i crimini in Darfur e Sud Sudan.

All’interno di questa caotica visione, iniziano a farsi largo diverse figure carismatiche tra le quali Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, ufficiale delle forze armate regolari, che tramite incarichi importanti, come l’attache militare per il Sudan in Cina, riesce a guadagnare credibilità non solo in patria.

Con la deposizione di Bashair sono proprio Hemedi e Al Bhuran, con un governo di transizione militare, a guidare il paese verso un regime democratico con libere elezioni.

Falliti ben due tentiativi di transizione, ultimo dei quali si riferiva all’accordo del 2022 col presidente Hamdok come rappresentante della societa’ civile, il punto centrale diventa proprio il confronto fra Al Bhuran e Hemeti. Con le dimissiondi Hamdok, Al Bhurnai diventa di fatto il leader del Sudan con Hemeti come vice; oltre a studiare un nuovo accordo (fallimentare) con la societa civile, Al Bhuran introudce una riforma dell’esercito che dovrebbe integrare l’RSF al SAF in due anni, mentre Hemeti propone in 10 anni.

Senza alcuna speranza di vedere un reale governo di transizione concrettizarsi, i due leaders si ritrovano in una disputa senza soluzione, situazione che fa scoppiare un vero e proprio conflitto nell’aprile 2023 e che vede un confronto su vasta scala, essendoci una vera e propria ‘’doppia presenza’’ nel Paese del RFS e SAF che improvvisamente si trovano in una guerra.

A livello di rapporti internazionali, al fianco degli attori istituzionali che si sono impegnanti nei negoziati di pace e come mediatori fra la societa civile e i miltari (USA, UK, Unione Africana), esistono anche i paesi arabi che guardano al conflitto sudanese non solo come una crisi regionale e umanitaria da affrontare ma anche come una nuova opporutnita’ di influenza.

Proprio l’autonomia finanziaria di Hemeti e le conoscenza istituzionali di Al-Bhuran hanno come conseguenza quella di avere un vero e proprio ‘’doppio Stato’’, dove Hemedi ha le sue relazioni con esponenti egiziani, libici, ciadiani, in Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Cina e soprattutto Russia (wagner), e Al-Bhuran altri interlocutori di alto profilo negli stessi Paesi. Da qui, interessi e conoscenze si intrecciano e sicuramente nella Regione come anche a livello internazionale, i vari paesi supportano una delle due fazioni e sperano nella vittoria dell’uno o dell’altro quando invece, per la popolazione sudanese, sarebbe molto piu’ benefico, un cambiamento della storia del paese che purtroppo difficilmente avverrà a breve termine.

Marco Tamburro

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Summit Italia Africa e Piano Mattei: Analisi preliminare di un evento storico

Marco Tamburro

Il 29 Gennaio a Roma si è svolto il Summit Italia-Africa. Scopo dell’incontro la presentazione del Piano Mattei per l’Africa, nuovo cavallo di battaglia del Governo italiano per rinvigorire la cooperazione con i Paesi do quel continente.

L’evento può essere oggettivamente considerato di portata storica, sia per la presenza e il coinvolgimento diretto di diversi ministri del Governo Italiano in ogni fase del meeting, sia perché raramente un singolo Stato riesce ad unire un numero cosi elevato di Capi di stato africani, rappresentanti delle Nazioni Unite e le tre figure più importanti dell’UE (Commissione, Parlamento e Affari Esteri) in unico evento.

Si sono registrate delle reazioni piuttosto scettiche da parte di altri partners europei dell’Italia. La Francia su tutti, forse condizionata dall’assenza di dettagli del Piano italiano, e probabilmente a causa della graduale perdita di influenza nel Saehl, guarda con timore le nuove politiche “africane” dei partners europei che possono guadagnare posizioni in un continente storicamente negli asset della sua politica internazionale, già minacciati dal pericolo Russia-Wagner nelle collaborazioni militari con Niger, Mali, Burkina Faso e Repubblica centro-africana.

Al momento, il Piano Mattei è stato reso noto solo negli aspetti chiave, contenuti nel Decreto legge già firmato dal Presidente della Repubblica:

  • 5.5 miliardi di investimenti nel partenariato Italia-Africa, tempo di implementazione 4 anni, settori di investimento/cooperazione che vanno dall’agricoltura, alla salute, investimenti nell’energia, sicurezza alimentare e contrasto all’immigrazione irregolare.
  • Tavolo di coordinamento composto da Presidente del Consiglio, diversi Ministri, su tutti Ministero Affari Esteri (MAE), l’Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS), Istituto commercio estero (ICE), gruppo assicurativo-finanziario italiano (SACE), Terzo settore, Presidente Conferenza Stato-Regioni.

Questi gli elementi che sono fin’ora noti e che si prevede verranno aggiornati in una relazione pubblica il 30 giugno di ogni anno.

Rispetto a questi contenuti, possono essere azzardate alcune analisi e riflessioni:

La prima riguarda la cifra di 5.5 miliardi di euro da investire. Può sembrare enorme, ma molto dipenderà da quanti Paesi saranno considerati prioritari e quale sarà il valore dell’investimento in ognuno di essi. In questo caso il nodo sarà capire se i Paesi che beneficeranno di un ulteriore supporto da parte dell’Italia saranno quelli da cui provengono molti degli immigrati irregolari che sbarcano in Italia (dati del Viminale, in particolare da Nigeria, Senegal, Costa d’Avorio e Burkina Faso), o saranno quei Paesi che assicurano una cintura protettiva e che dovrebbero rafforzare ancor di più il controllo sul traffico illegale di essere umani (Libia, Tunisia, Marocco, Egitto).

E’ altresì probabile che l’Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS), in paesi in cui già opera, si vedrà rinominare una parte del budget annuale già previsto per le attività di cooperazione, come parte del ‘Piano Mattei’’.

Un punto interessante sarà anche capire se la presenza e gli investimenti di ENI (infrastruttura energetica, importazione-esportazione, progetti di responsabilità sociale) verranno considerati come capitale indirettamente investiti e quindi come ulteriore fetta del piano Mattei.

Parte del budget, inoltre, sarà probabilmente destinato a favore delle Nazioni Unite per far fronte alle maggiori crisi alimentari (ex. World Food Program per la sicurezza alimentare).

Al di là di queste riflessioni preliminari, rimane il punto di cosa gli Stati Africani si possono aspettare da questo nuovo slancio nelle relazioni con l’Italia e se i dettagli operativi (settori di cooperazione, quota per ogni Paese) giocheranno poi un ruolo su un miglioramento delle relazioni o aumenteranno le frustrazioni in caso di promesse disattese.

Marco Tamburro

RCA WAGNER

Repubblica Centrafricana: Crisi umanitaria e protettorato della Wagner

Marco Tamburro

Nell’Agosto del 2023 il Presidente Tuatara è stato confermato grazie a un referendum costituzionale che egli stesso si era adoperato per far approvare e che portò alla firma della nuova costituzione centro africana.

La Repubblica Centrafricana è un paese che versa storicamente e cronicamente in una situazione di crisi umanitaria, che oggi colpisce una popolazione fra 1.8 e 2 milioni, di cui circa 300.000 bambini a rischio di malnutrizione acuta-severa.

Oltre ai problemi interni acuitisi dopo la deposizione dello storico presidente Bozize (2003-2010), il Paese si è frammentato in diverse parti controllate da fazioni e milizie islamiche (seleka), antislamiche (anti-balaka) ed esercito fedele al governo centrali e supportate dalla missione delle Nazioni Unite (MINUSCA). La Repubblica Centrafricana oggi ospita nel nord-est circa 24.000 sudanesi fuggiti a causa del confronto fra le autorità centrali sudanesi che hanno portato un’ondata di violenze nel 2023.

Come altre realtà africane una lunga storia di conflitti, guerre civile e sottosviluppo entrano in contraddizione con una vasta ricchezza di risorse naturali. In questo quadro i partner storici di cooperazione come gli Stati membri dell’Unione Europea e gli Stati Uniti sono rimasti impotenti di fronte alla scelta del governo della Repubblica del Centrafrica di essere supportato dalla compagnia militare privata russa Wagner per garantire la sicurezza della capitale Bangui e soprattutto combattere le milizie e gruppi che hanno fronteggiato il governo centrale. Ci si interroga su come un Paese poverissimo e dipendente dagli aiuti umanitari di decine di paesi internazionali sia riuscito a stringere un accordo militare che non è solamente una parziale perdita del controllo della propria sovranità nazionale, quantomeno da un punto di vista di uso della forza, ma anche da un punto di vista economico, considerando il costo enorme di quelle che sono le compagnie militari private, soprattutto se vengono chiamaate ad assumere un assetto operativo.

Per questo motivo in Centrafrica, come in altri contesti, i partner occidentali sono sempre stati molto attenti nel cercare di decifrare le basi degli accordi e le relazioni fra i Paesi africani e la Wagner, soggetto ovviamente ‘’in avanscoperta‘’ per conto della Russia. In uno stato particolarmente debole come il Centrafrica, la Wagner è riuscita non solo ad assicurarsi dei posti di primo piano nelle decisioni politiche e militari del paese, basti pensare che un consigliere politico e uno militare sono membri permanenti del gabinetto del Presidente, ma anche delle concessioni per l’estrazione di oro e altri metalli preziosi. E’ quindi probabilmente questa la moneta di scambio richiesta per i servigi della Wagner, forse unica soluzione per questi Paesi che mirano a una consolidazione del potere e a migliorare la situazione della sicurezza. Dopo i fatti accaduti fra il gruppo Wagner e la Russia nel quadro del conflitto tra quest’ultima e l’Ucraina, sarà importante decifrare se la presenza della Wagner possa essere ancora considerata come una forza militare che persegue gli stessi interessi della Russia e che quindi si propone anche come alternativa alle collaborazioni militari rispetto alle missioni delle Nazioni unite o il supporto dell’Unione Europea, o se agisca per proprio conto.

Marco Tamburro

Paris, France -  July 14, 2016 : Mozambique Diplomatic car during Military parade in Republic Day. Champs Elysees.

MOZAMBICO: Attore principali nella strategia dell’ “indipendenza da Mosca” per l’Italia e l’Europa

Marco Tamburro

A fine ottobre 2022 partiva il primo carico di GLN dal Mozambico destinato all’Italia; proprio nel 2022 l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio programmava una visita in diversi paesi dell’africa sub sahariana con lo scopo di rafforzare le relazioni diplomatiche e commerciali con quei paesi africani che erano stati già da tempo individuati come l’alternativa alla Russia per le forniture energetiche.

Nel 2023 la premier Giorgia Meloni ha fatto visita in Angola, Mozambico e Repubblica democratica del Congo per ribadire la vicinanza e gli interessi italiani in questi paesi. La realtà mozambicana può essere considerata una delle priorità per l’Italia già da tempo e vive di relazioni diplomatiche storiche quali ad esempio l’accordo di pace firmato a Roma nel 1992 in cui un ruolo fondamentale fu giocato dalla Comunità di Sant’Egidio e della diplomazia italiana.

La presenza italiana sul territorio si è ulteriormente rafforzata nel 2017 grazie all’ENI e al suo ruolo di capofila nel consorzio con Exxon mobile (compagnia americana), del progetto Rovuma. Nel contesto mozambicano il progetto dell’ENI ha avuto inoltre la fortuna di non essere mai danneggiato o interrotto, come è successo alla francese TOTAL, che dopo aver rimpiazzato l’americana Anadarko nel 2016 per il progetto dello sfruttamento del giacimento di gas offshore al largo di Cabo Delgado, ha visto le operazioni interrompersi a causa della presenza di un movimento associato all’isis (non state armed Group) che ha provocato quasi un milione di sfollati interni e diverse vittime tra la popolazione, le forze mozambicane e le altre sudafricane.

È chiaro quindi che a causa del conflitto fra Russia e Ucraina le forniture dal Mozambico non possono rappresentare solamente una soluzione temporanea così come quelle che sono destinate all’Europa in provenienza dal Congo e dall’Angola. Questi Paesi saranno a breve veri e propri partner strategici in grado, insieme ad una notevole importazione dagli Stati Uniti, di porre fine alla dipendenza energetica dalla Russia.

In questo nuovo quadro di relazioni diplomatiche e commerciali ci si deve anche interrogare su quali siano gli obiettivi e i vantaggi che i Paesi africani vogliono trarre da queste relazioni: se l’Unione europea persegue l’obiettivo dell’indipendenza energetica dalla Russia è ovvio che questa situazione è ben chiara e compresa da questi nuovi partners.

Questa situazione fa sì che le relazioni diplomatiche possono rafforzarsi da un lato ma vengano considerate prioritarie dall’altro. questo perché i Paesi africani, soprattutto in Repubblica democratica del Congo e in Mozambico, non sono riusciti negli ultimi anni a migliorare le condizioni di vita della popolazione. Quest’ultimo flagellato da fenomeni climatici particolarmente forti e considerato fra i primi 15 paesi più a rischio per catastrofi naturali derivanti dal cambiamento climatico.

Uno sguardo alle ultime elezioni amministrative svoltesi in Mozambico nel novembre 2023, rivela che i diversi casi di frode e la mancanza di trasparenza nel processo, unito a diversi scandali economici che hanno contraddistinto l’establishment politico di Maputo tra il 2016 e il 2018, investa la diplomazia dell’Unione Europea del compito di bilanciare l’interesse commerciale a quelli che sono gli obiettivi di crescita e sviluppo sociale e delle libertà civili che sono un obiettivo storico nelle relazioni diplomatiche che l’Unione europea ha instaurato con diversi partner africani.

Di conseguenza, il punto cruciale è come questi Paesi potrebbero sfruttare le necessità energetiche dell’Unione europea per essere molto meno interessati o recettivi a quelli che sono le richieste degli Stati membri UE rispetto a una maggiore trasparenza elettorale, un rispetto delle libertà civili di parola e di stampa e un miglioramento generale delle condizioni della popolazione. I casi del Mali, del Niger e del Burkina Faso che hanno mostrato progressivamente una grande insofferenza, rispetto alla storica presenza francese sul suolo nazionale, sono un campanello d’allarme per tutta Unione europea che deve prendere in seria considerazione la presenza diplomatica russa e la possibilità che essa possa rappresentare l’alternativa diplomatica e politica come partner prioritario per questi Paesi africani.

Ovviamente, la Russia non è uno stato im grado di garantire il supporto economico che l’Unione europea ha sempre garantito alla totalità dei partner africani, ma potrebbe essere una valida alternativa da un punto di vista di supporto militare con la presenza o di truppe regolari russe o di un’espansione ancora maggiore delle milizie Wagner, come già accade nella Repubblica Centrafricana. In futuro, sia l’Italia che gli altri membri UE dovranno riuscire a mettere in piedi una diplomazia molto astuta capace di perseguire gli interessi commerciali legati alle forniture energetiche, senza però abbandonare gli storici obiettivi di sviluppo sociale dei quali le popolazioni africane hanno un enorme bisogno.

Marco Tamburro

Sud Sudan

Sudan: Nuove fiamme da braci vecchie di trent’ anni

Marco Tamburro

Omar Hassan Ahmad al-Bashir e il Sudan moderno

Omar Hassan Ahmad al-Bashir ha ricoperto il ruolo di capo di Stato del Sudan dal 1989 al 2019, quando è stato deposto con un golpe militare. Al-Bashirm salito anch’esso al potere tramite un colpo di stato militare nel 1989 a scapito del primo ministro Sadiq al-Mahdi, dopo che questi aveva avviato negoziati con i ribelli del Sud.

Fortemente ostile a qualsiasi negoziato per riconoscere l’indipendenza dell’odierno Sud Sudan, nel 1992 al-Bashir fonda il Partito del Congresso Nazionale, con lo scopo di non lasciare il potere e lavorare su una transizione politica che lo riconfermasse, come avvenuto fino al 2019. La storia di al-Bashir è caratterizzata da un accentramento costante del potere e da un’ostilità per le posizioni di compromesso che hanno causato la morte di milioni di persone, in particolare nelle regioni del Darfur e l’odierno Sud Sudan.

Paese, quest’ultimo, divenuto ‘’famoso’’ per le numerose missioni di supporto umanitario della comunità internazionale, necessarie per cercare di rispondere alle necessita basiche della popolazione. La tragedia che investì questi territori causò la fuga di milioni di persone che trovarono rifugio nelle vicine Etiopia, Kenya e Ciad ma che riuscirono a sopravvivere solo grazie ad un enorme sforzo della comunità internazionale che si fece carico di tutti i nuovi rifugiati nei paesi di destinazione.

Il Darfur

Dal 2003, il Darfur è stato teatro di un conflitto che ha visto contrapposta la maggioranza della popolazione. Divisa tra tribù sedentarie, e la minoranza nomade, proveniente dalla penisola araba, maggioritaria nel resto del paese e che gode dell’appoggio del governo centrale, accusato a sua volata da entrambe le fazioni di tollerare le feroci scorribande dei janjāwīd (i “demoni a cavallo”). Dal 1985, e ancor di più dal 2002, il governo centrale ha strumentalizzato queste controversie, applicando una strategia per cercare di dividere le etnie e renderle il più debole possibile. Durante la presidenza di Al Bashir, si registrano diversi scontri tra le milizie janjāwīd e altri gruppi ribelli come l’Esercito di liberazione del Sudan (SLA) e il Movimento per la giustizia e l’uguaglianza (JEM) che rappresentava la regione del Darfur.  

Altri aspetti di carattere climatico legati a una drammatica siccità con conseguente desertificazione del suolo e carestia hanno presentato il Darfur all’opinione pubblica internazionale, come una delle più urge ti e complesse situazioni di intervento umanitario a cui rispondere.

La guerra per il Sud Sudan

Se per il Darfur si parla di un problema di etnie, per il Sud Sudan in gioco esiste un aspetto economico ancora più importante legato al petrolio. Partendo dalle posizioni estreme di Bashir sulla negazione di uno stato sudsudanese, la regione è stata teatro di due guerre civili, combattute tra l’esericto governativo e l’Esercito di Liberazione del Popolo del Sudan (ELPS).

Durante il conflitto, come misura estrema e disumana per indebolire l’ELPS, il governo centrale sudanese si è disinteressato completamente della situazione umanitaria dei sud sudanesi, ignorando la mancanza di importanti infrastrutture civili, incoraggiando la fuga di molti profughi e la devastazione di aree produttive con azioni militari.

Si stima, oltre alle vittime di guerra, un totale di 2.5 milioni di persone decedute per malnutrizione, e 5 milioni di rifugiati presenti in altri Paesi.

Nel gennaio 2011 i cittadini del Sudan del Sud decidono tramite un referendum se separarsi o meno dal resto del Sudan e dichiararne l’indipendenza. L’affluenza fu elevatissima, circa il 96% degli aventi diritto e a fine mese i risultati mostrarono come la popolazione, con il 98,81% di voti favorevoli fosse nettamente a favore dell’indipendenza.

A seguito del risultato, il 9 luglio 2011 il Sudan del Sud, malgrado non vengano risolte alcune controversie con il Nord, si dichiara Stato sovrano e indipendente. Il principale punto di discordia è la ripartizione dei proventi del petrolio, i cui giacimenti si trovano all’80% nel Sudan del Sud e rappresentare un incredibile potenziale economico in un’area fra le più povere al mondo, mentre la maggior parte degli impianti di raffinazione si trova al Nord.

Abyei, regione contesa in questa disputa, deciderà con un referendum a quel ei due stati vorrà appartenere. Oltre che da diatribe territoriali, l’instabilità nel neonato Sud Sudan proviene anche da faide interne alla classe politica dirigente. Con un tentativo di colpo di Stato nel dicembre del 2013 le forze leali al presidente Salva Kiir, di etnia Dinka, si sono scontrate con quelle fedeli all’ex vicepresidente Riech Machar, di etnia Nuer, esonerato a luglio a causa dei forti contrasti con Kiir. A dicembre 2014, almeno 50.000 persone erano state uccise nel corso di questo conflitto etnico.

La Corte Penale Internazionale e ‘’l’incidente sudafricano’’

Nel luglio 2008, il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno Ocampo, ha accusato al-Bashir di genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra. La situazione in Darfur è stata analizzata dalla CPI molto attentamente e per molto tempo, fino alla decisione del 2008 che portò a spiccare il mandato di cattura. Il 4 marzo 2009, la Corte ha emesso un mandato di arresto per al-Bashir per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, ma stabilì anche che non vi fossero sufficienti prove per perseguirlo per genocidio. Successivamente, il 12 luglio 2010, tale sentenza venne modificata  e la Corte emise un secondo mandato, contenente tre distinti capi d’accusa di genocidio. I capi d’accusa non affermano che Bashir avesse preso parte personalmente a tali attività, ma sostengono che sia “sospettato di essere penalmente responsabile, in quanto co-protagonista indiretto”. Alla decisione del tribunale si sono opposti l’Unione Africana e la Lega Araba.

Il nuovo mandato, come il primo, è stato consegnato al governo sudanese, che non ha riconosciuto né il mandato né la Corte penale internazionale. Il Sudan fa parte della lunga lista di Paesi che non riconoscono la Corte, insieme a Libia, Somalia, Giordania, Turchia, Egitto, Sud Sudan, Gibuti, Eritrea, Pakistan, Algeria, Iraq, Israele, Arabia Saudita, Kuwait, Oman, Libano, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti.

Nel giugno del 2015, il Presidente del Sudan si reca insieme ad altri leaders africani in Sud Africa, per il summit dell’Unione Africana. Il 14 giugno 2015, La Corte penale internazionale esorta il Sudafrica ad arrestare Al Bashir; in un primo momento, l’imbarazzo e la pressione sul Sud Africa sono fortissimi, e la giustizia sudafricana vieta a Bashir di lasciare il paese finché non si attueranno ulteriori verifiche e si sarà pronunciata sulla richiesta di arresto. Il 15 Giugno arriva la decisione dei giudici dell’alta corte sudafricana che ordina l’arresto del presidente Omar al Bashir. Sfortunatamente, il verdetto viene emesso qualche ora dopo la partenza di Bashir dall’aeroporto di Johannesburg, in violazione del precedente ordine; da qui una polemica che coinvolge varie autorità sudafricane, con i giudici amareggiati dal fatto che le autorità di polizia non hanno rispettato l’ordine di trattenere Bashir in Sudafrica.

Le proteste del 2018

A partire dal dicembre 2018, al-Bashir affronterà un diffuso malcontento che porterà la piazza a chiedere la sua rimozione dal potere. Le proteste antigovernative investivano diverse città e paesi del Sudan, la scintilla partita dall’aumento del costo del pane e del carburante, si è poi allargata alla richiesta di maggior trasparenza, alternanza politica e alla conseguente conclusione della trentennale presidenza di al-Bashir.

In meno di una settimana, le manifestazioni, iniziate il 19 dicembre nella città di Atbara, si sono rapidamente diffuse in tutto il Paese, compresa la capitale Khartoum.

L’11 aprile 2019, la situazione diventa insostenibile ed è l’elite militare a prendere in mano il potere, sollevando Bashir con un colpo di Stato militare. Nel settembre dello stesso anno, Bashir è sostituito dal Consiglio militare di transizione che trasferisce il potere esecutivo a un Consiglio di sovranità misto civile-militare e a un primo ministro civile, Abdalla Hamdok. Due mesi dopo, l’alleanza “Forze della Libertà e del Cambiamento” dichiarano che Bashir sarebbe potuto essere trasferito alla Corte penale internazionale. Nel dicembre dello stesso anno è stato condannato per corruzione a due anni di carcere. Inoltre, nel luglio 2020, un ulteriore processo è stato istruito contro di lui per il suo ruolo nel colpo di Stato che lo ha portato al potere nel 1989. Nel 2021, Al Bashir è consegnato dal governo sudanese all’Aja.

Il Consiglio militare di transizione (TMC)

Il Consiglio militare di transizione (TMC), rappresenta la giunta militare che governava il Sudan dalla rivoluzione d’aprile del 2019. Il 17 luglio il TMC formalmente guidato da Abdel Fattah al-Burhan, Ispettore delle Forze armate e l’alleanza Forze della Libertà e del Cambiamento (FFC) firmano un accordo di cooperazione politica. In questo scenario di fragile stabilità politica inizia a farsi largo Hamdan Dagalo, conosciuto come Hemetti, vice leader del Consiglio, comandante delle (RSF) Forze di supporto rapido e di conseguenza detentore del reale potere all’interno del Consiglio. A capo dei Janjaweed durante la guerra in Darfur , è stato nominato generale di brigata nelle nuove forze di supporto rapido (RSF) dal governo 1989-2019 di Omar al-Bashir. Dal 10 giugno 2019 , è un latitante accusato di crimini di guerra , crimini contro l’umanità e genocidio da parte della CPI.

La RSF è stata creata nel 2013 sotto la guida di Hemetti, da ex gruppi di combattenti Janjaweed, molti dei cui leader e sostenitori ( Ahmed Haroun , Ali Kushayb , Abdel Rahim Mohammed Hussein , oltre ad al-Bashir) sono stati incriminati per guerra crimini della CPI.

 Le RSF si sono rivelate essere l’organizzazione immediatamente successiva alle milizie janjāwīd che una parte dei vertici militari mira a far assorbite all’interno della struttura militare statale e conseguentemente legittimare.

Gli accordi del 2019 prevedevano il trasferimento dei poteri a un nuovo organismo noto come Consiglio di sovranità e ad altri organi statali di transizione. Nonostante la vittoria del fronte per il cambiamento, il 2019 è contraddistinto da varie tappe di incertezza e instabilità, come dimostrano varie dichiarazioni del Governo rispetto ad elementi di spicco sudanesi che rifiutano il nuovo ordine, affermando che ‘abbiamo sventato più di un colpo di stato e i responsabili sono stati arrestati’’.

Il 12 luglio 2019, Gamal Omar del TMC ha riferito di quattro tentativi di colpo di Stato solo nei primi 7 mesi del 2019 e che a seguito di essi dodici ufficiali dell’esercito e del National Intelligence and Security Service (NISS) sono stati arrestati.

La ‘’nuova guerra’’ del 2023

L’instabilità è la condizione che ha maggiormente contraddistinto gli ultimi 4 anni di transizione del paese guidato da una leadership mista civili/militari. La continua trattiva tra le parti sul futuro della leadership del paese è stata la condizioni che ha si permesso lenti progressi nello sviluppo del territorio ma che ha anche esasperato gli animi e irrigidito le posizioni di ambo le parti, arrivando nel febbraio di quest’anno alla rottura definitiva dei rapporti tra esse.

Se l’FFC ha rappresentato, sin dal 2019, la speranza del cambiamento per i sudanesi, i componenti del TMC hanno visto la rivoluzione sudanese come un’opportunità per destituire Al Bashir che ormai aveva fatto il suo tempo. Contestualmente non hanno di certo messo, fra le priorità, gli obiettivi legati ad una democratizzazione del Paese e un miglioramento delle condizioni della povera popolazione sudanese. Durante il colpo di stato, Hemetti e Burhan hanno formato, progressivamente, un fronte comune per estromettere i civili alla guida del paese. Col passare del tempo, tuttavia, Hemetti ha costantemente denunciato il colpo di stato. Anche di recente si è schierato con i civili – quindi contro l’esercito nelle trattative politiche – bloccando le discussioni e quindi ogni soluzione alla crisi in Sudan. Per giorni i civili e la comunità internazionale hanno dovuto accettare un nuovo rinvio della firma dell’accordo politico che avrebbe dovuto far uscire il paese dall’impasse – a causa delle divergenze tra i due generali. Già nel mese di marzo, non c’erano prospettive concrete e positive sulla firma dell’accordo per aprire il processo politico che avrebbe dovuto riportare i civili al potere in Sudan.

La tensione si è progressivamente avvertita, e per giorni tra la popolazione della capitale Khartoum si sono rincorse voci di un imminente scontro tra i due campi. Già il 13 Aprile l’esercito aveva denunciato un “pericoloso” dispiegamento di paramilitari a Khartoum e in altre città senza “il minimo coordinamento con il comando delle forze armate”.

Le divergenze tra i due uomini forti del Sudan riguardano soprattutto il futuro dei paramilitari. Il nodo riguarda soprattutto quello del ruolo delle forze armate e la loro composizione: fra i punti chiave della transizione democratica, esiste la richiesta dell’integrazione delle RSF nelle truppe regolari: l’esercito non ha mai del tutto rifiutato questo compromesso, ma alle sue condizioni e con l’obiettivo velato di limitarne l’integrazione dei suoi effettivi. Hemetti, invece, rivendica un’ampia inclusione di tutti gli RSF e, soprattutto per lui stesso, un ruolo centrale all’interno dello stato maggiore. Come gia evidente in altri paesi del Nord Africa, l’esercito ha sempre svolto un ruolo fondamentale nel Paese e detiene buona parte del potere politico ed economico.

Dalla parte della società civile, i comitati di resistenza e l’Associazione dei professionisti sudanesi, all’ origine della rivoluzione del 2019, ripetono di rifiutare qualsiasi accordo con i soldati golpisti e infatti non hanno fermato, regolarmente, le manifestazioni contro l’attuale regime di lunga transizione militare.

Sembra quindi chiaro che il punto chiave sia sciogliere il nodo delle forze armate, sia da un punto di vista di composizione interna (questione degli RSF), sia sul piano politico, per quel ruolo fondamentale che ha sempre visto i militari sostenere il dittatore: una netta separazione di poteri sancita dalla fine della transizione e dalla  dal potere politico porterebbe il paese sul cammino della democrazia, metterebbe fine al regime dei golpisti e, soprattutto, ridarebbe fiato all’economia che sta vivendo una crisi senza precedenti e aprirebbe, nuovamente, la strada a interventi delle istituzioni finanziarie internazionali necessari per avviare riforme fondamentali per la vita stessa del paese. La comunità internazionale, infatti, ha chiesto il ritorno alla transizione per riprendere gli aiuti al Sudan, cessate il fuoco e salvaguardare i civili. Se le parti in causa avessero raggiunto un accordo, la tabella di marcia prevedeva l’entrata in vigore della Costituzione provvisoria e la formazione di un nuovo governo civile, già entro questo mese, invece di mancare un’occasione storica e piombar in un nuovo conflitto con molte vittime civili anche straniere, che porterà sgradite conseguenze aii rapporti internazionali per il Sudan.

Marco Tamburro

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Cabo Delgado: da conflitto locale a conflitto internazionale cronico?

Marco Tamburro

Pochi giorni fa, durante il summit US-Africa, il presidente Nyusi si e’ espresso a favore di ‘’una soluzione africana per un problema africano’’, quello di Cabo Delgado, ma preoccupa lo stato delle operazioni attuali e il sostanziale immobilismo a livello di risultati militari

Nel 2023, il numero della poplazione del nord del Mozambico che necessitera’ di aiuto umanitario aumentera’ a 2.1 milioni secondo il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite (HRP, humanitarian response plan 2023), con un bisogno di finanziamento di piu’ di 500 milioni di dollari.

Sfiorando l’1.5 milioni di dislocati interni, il conflitto non sembra avere una soluzione a breve termine e, anche se i lavori per l’infrastruttra per l’estrazione e esportazione del gas nella zona di Afungi dovessero ripendere, non sembra esserci una soluzione politica al conflitto.

Se nel 2021 l’intervento del Rwanda aveva fatto registrare grandi progressi militari, gli attacchi nel sud di Cabo Deglado e dei rapidi attacchi a villagi remoti nella Provincia di Nampula hanno ormai portato il conflitto in una fase di confronto militare permanente, non limitato ad aree particolari ma esteso a tutto il Nord, e ad una serie di risultati positvi per l’una e per l’altra parte. L’impegno del contingente SAMIM dei Paesi della SADEC e il contingente rwandese non sembrano essere piu’ sufficienti nel contrastare le tattiche di guerriglia dell’ISIS Mozambico.

Questa escalation di attacchi e la sostanziale impreparazione delle forze regionali sudafricane sembrano portare il conflitto ad assumere le caratteristiche di una crisi cronica, alla viglia del sesto anno di crisi.

Accanto ad una risposta militare inadeguata, esiste ache una cronica mancanza di leadership delle autorita’ nazionali rispetto alle soluzioni politiche del conflitto, senza una vera e propria leadership decentralizzata che riesca ad avere un approccio chiaro e metodlogico coinvolgendo tutti i vari attori del conflitto; il Governo sembra solo perseguire l’obiettivo principale della ripresa delle attivtia’ della TOTAL, dopo essersi fregiato del risutlato della prima esportazione ufficiale di gas dagli impianti di Nampula, per il progetto, mai interrotto, gestito da ENI e Exxon Mobile.

Per l’estremo nord, la soluzione sembra tutt’altro che vicina, e la politica internazionale non sembra avere ancora Cabo Delgado al centro dell’agenda, ne’ politcia ne’ militare; ovviamente, anche questa crisi ‘’glocale’’ e’ offuscata dalla crisi ucraina che non puo’ che distogliere l’attenzione dalle altre guerre, sopratutto quelle piu lontane dallo scacchiere eurasiatico.

La domanda e’ che cosa ci si puo attendere er il 2023? Tentando di fare alcune ipotesi, lo scenario potrebbe: cambiare rispetto agli esiti del conflitto ucraino, nel caso di una soluzione, Cabo Delgado potrebbe guadagnare in visiblita’, esponendo il Paese ad una maggiore attenzione e maggiore aiuto, ma anche piu responsabilita’ del Governo, tenendo in considerazione anche il ruolo del Mozambico nel consiglio di sicurezza dell’ONU per un semestre; arrivare ad un impegno finanziario maggiore dell’UE, portando fondi direttamente per l’aumentare lo sforzo bellico del Rwanda e/o del contingente SAMIM; continuare in una sostanziale mancanza di leadership del Governo per la situazione del dislocati e confidare nel ruolo di assistenza tecnica e leadership tecnica delle varie agenzie UN e donatori internazionali.

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Targhe per allodole

Enrico Strina

Prosegue la tensione tra Serbia e Kosovo. L’ultimo episodio è quello dell’obbligo, imposto dal governo del premier kosovaro Kurti, di dover reimmatricolare le automobili di residenti sul territorio kosovaro con targhe kosovare, eliminando così la possibilità di poter circolare anche con targhe serbe.

È finita la pace a Mitrovica (se mai ce ne fosse stata una). È finita la pace sul territorio kosovaro. Non che sia una novità da queste parti: come dicono quasi tutti gli ex jugoslavi, per loro la la pace è semplicemente il momento in cui è assente la guerra. E pensare che il “momento felice” durava ormai da circa tre lustri: dopo la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, fortemente sponsorizzata e “nutrita” dai paesi occidentali (Usa in testa), nel neo-stato incastonato tra Serbia e Albania si respirava un’aria di calma apparente, pur sempre migliore dei venti di guerra e degli spari utilizzati come forma di minaccia contro il vicinato.

Il discorso sulle targhe, emerso a inizio a novembre 2022, affonda le sue radici nei difficili negoziati seguenti l’Accordo di Bruxelles del 2013: quasi dieci anni dopo Albin Kurti – premier fortemente indipendentista con una marcia che va più veloce anche dei paesi Nato che monitorano preoccupati la situazione – ha deciso di rispolverare questo mai completamente attuato (leggasi ben poco attuato) documento per risvegliare un po’ la situazione. L’Accordo prevede una progressiva “normalizzazione” (o “kosovizzazione” a seconda del punto di vista) dello Stato, all’epoca dichiaratosi indipendente da circa 5 anni. La “normalizzazione” interviene su alcuni aspetti burocratici e organizzativi del Kosovo: prescrive infatti il passaggio di tutto il territorio – a livello istituzionale – sotto il pieno controllo di Pristina. Tutte le enclave e i comuni del nord a maggioranza serba devono quindi a breve rinunciare anche alla possibilità di emettere documenti di identità e anche le targhe automobilistiche. Contemporaneamente, per far sì che i serbi possano mantenere un certo grado di autonomia, nell’Accordo di Bruxelles c’è anche la creazione di una Associazione di municipalità serbe, una specie di consorzio in cui le varie comunità della parte settentrionale del Kosovo possano dialogare e continuare a preservare le proprie specificità.

Qui si è creata la frattura: mentre Kurti ha continuato a spingere sul discorso targhe, forte dell’autorità governativa, la creazione dell’Associazione dei comuni di lingua serba è stato relegato nell’angolino delle cose da fare (forse) in futuro. A quel punto è iniziata la risposta della Srpska Lista, il partito della comunità serba del Kosovo: circa tremila tra sindaci, consiglieri comunali, assessori, dipendenti comunali di origine serba si sono dimessi nel giro di poche ore, lasciando scoperti interi municipi. Da Pristina è arrivata la subitanea indizione di nuove elezioni per rimpiazzare il personale dimessosi, contestate dalla parte serba, tanto che le votazioni (previste per il 18 dicembre scorso) sono state rinviate ad Aprile 2023.

Soltanto dopo un mese di empasse, all’inizio di dicembre, le due parti – aiutate dalla mediazione dell’UE – sono giunte a un compromesso temporaneo: Belgrado non rilascerà nuove targhe ai serbi del Kosovo, mandandole così a esaurimento. I kosovari non sanzioneranno chi girerà con le targhe serbe.

Il compromesso non ha però risolto le tensioni: i blocchi stradali presenti in molte città di lingua serba proseguono. A Mitrovica in particolare sono segnalate barricate e il ponte sull’Ibar è tornato ad essere un luogo nevrotico e pieno di veicoli blindati della KFOR e di pattuglie della polizia kosovara.

Descritta in questo modo, sembrerebbe un pigiare sull’acceleratore solo da parte kosovara, ma non è così.

Da qualche mese infatti anche il presidente serbo Vucic ha ricominciato a sventolare il fantasma della Risoluzione 1244. Utilizziamo la parola “fantasma” non a caso: la Risoluzione 1244 è datata 1999 e risale alla fine dei bombardamenti Nato contro Belgrado. Nella Risoluzione si sottolinea che, dopo aver liberato il territorio kosovaro, “un numero concordato di personale jugoslavo e serbo sarà autorizzato a ritornare per svolgere le seguenti funzioni: collegamento con la missione civile internazionale e con le forze internazionali di sicurezza presenti sul territorio, individuare/bonificare terreni minati, mantenere la presenza nei luoghi del patrimonio culturale serbo, mantenere la presenza nei principali valichi di frontiera”. Un testo assolutamente anacronistico oggi (a quasi 24 anni dalla sua scrittura), come si vede da molti termini oggi ormai decaduti (Jugoslavia?) e dalla stessa proclamazione dello stato del Kosovo. Sul fuoco della Risoluzione 1244 iniziano a spingere anche i media serbi: in particolare Radio Slobodna Evropa richiama sull’attuazione di questa e ogni tanto lancia “fondate ipotesi” su eventuali bozze di accordo tra UE e Kosovo in cui si dichiara un rapporto paritetico tra Kosovo e Serbia. I media dell’odio sono pronti a ricominciare con quella diffusione di fake news che ebbero un loro importante ruolo anche nel conflitto di inizio anni ‘90.

Le targhe, insomma, sono soltanto lo specchietto per le allodole di una situazione molto complessa e, non va trascurato, molto pericolosa in quel punto dell’Europa a metà tra Mediterraneo ed Europa orientale.

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Mozambico: Nampula, il nuovo volto del conflitto

Marco Tamburro

Come giá successo nel 2020 nella Provincia di Niassa, nuovi attacchi lampo minano le certezze e i successi militari del 2022 delle forze mozambicane e rwandesi, e rimettono in discussione la sicurezza nazionale

Il 6 settembre di quest’anno, perdeva la vita suor Maria Coppi nel villaggio di Chipene, durante un attacco lampo nel quale altre suore sono sfuggite ad un tentativo di rapimento. Suor Maria Coppi é la prima espatriata uccisa dopo le vittime dell’attacco di Palma di Marzo 2021, costato la vita ad almeno nove sudafricani. Questa volta, peró, il dato piu preoccupante é l’evolversi degli attacchi nella Provincia di Nampula, che si trasforma in un nuovo fronte della guerriglia portata dall’ISIS Mozambico. In precedenza, altri attacchi si erano registrati a ridosso del confine provinciale meridonale di Cabo Delgado, nei distretti di Memba e Erati; in queste zone, la popolazione si é dovuta, ancora una volta, dislocare per cercare riparo in comunitá piu grandi e meno isolate, nella speranza di trovare zone meno soggette ad attacchi lampo. I dislocati nella Provincia di Nampula salgono cosí a piú di 90.000, a cui si aggiungono i 945.000 di Cabo Delgado; come giá accaduto in passato, piccole cellule dormienti, probabilmente sovvenzionate dall’ISIS Mozambico, attaccano villaggi isolati e costringono le forze mozambicane ad aprire un nuovo fronte da pattugliare, con l’ulteriore difficoltá di non ricevere l’assistenza delle truppe rwandesi che si sono disimpegnate, sin qui, con maggiore efficienza a Cabo Delgado.

Verso la fine di settembre, esercito e polizia sembrano riuscire a garantire una parvenza di sicurezza che ha riportato a zero attacchi la situazione di Nampula delle ultime settimane; nonostante ció, ci si interroga sulla permeabilitá del territorio nord mozambicano a questo tipo di attacchi, studiati chiaramente per creare confusione e dare l’impressione di aprire ogni volta nuovi fronti. Su Cabo Delgado, questa dinamica si era giá osservata nella zona di Chiure-Ancuabe, quei distretti che per tutto il 2020-2021 erano stati considerati sicuri, e che poi hanno visto un’intensificazione degli attacchi ad agosto 2022, situazione che ha reso anche il sud di Cabo Delgado una zona a rischio. La percezione della popolazione é, di conseguenza, quella di non aver nessuna zona realmente sicura e non esposta a potenziali attacchi.

A questo punto, sembra ovvio che lo sforzo militare debba espandersi anche a queste nuove zone, accanto a nuovi bisogni umanitari che crescono, ed un lavoro di coesione sociale e investimenti nell’area che sembrano essere indispensabili per non far cadere i giovani vulnerabili nella rete del terrorismo e di guadagni facili.

Proprio ad inizio settembre, l’Alto Rappresentante per gli Affari esteri dell’UE, Joseph Borrell, visitava il Mozambico, e il 9 Settembre confermava un budget di 15M di euro approvato dall’UE per le forze militari SAMIM (Mozambico, Sud Africa, Botswana, Zambia, Lesotho) impegnate nel conflitto, che si aggiungono ai 35M di euro in quattro anni per le esercitaizoni e equipaggiamento. Si attende, inoltre, lo sviluppo dei rapporti col Rwanda e l’eventuale finanziamento anche per loro in modo da rafforzare la presenza nel nord del Mozambico.

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SADC e Rwanda operative: La necessità di un intervento internazionale per scongiurare una crisi regionale

Marco Tamburro

Mentre le truppe ruandesi e quelle mozambicane hanno riportato notevoli successi tra luglio ed agosto di quest’anno, le truppe SADC sono state dichiarate completamente operative solo a partire dal 2 settembre.

L’efficacia delle truppe ruandesi, in appoggio al Mozambico, nelle operazioni militari che si sono svolte tra maggio ed agosto, sembra essere di gran lunga superiore rispetto al supporto concreto dato dagli altri paesi SADC fino ad ora.

In effetti, i Paesi SADC hanno incontrato diverse difficoltà, inizialmente, nel trovare un accordo politico-militare soddisfacente per tutti i membri; la riluttanza del Mozambico ad avere troppe truppe stranieri sul proprio suolo nazionale ha giocato un ruolo fondamentale nel ritardo di coordinamento e dispiegamento delle forze degli altri Paesi. Contemporaneamente l’accordo bilaterale Mozambico-Ruanda risulta invece essere molto più efficace e il rapido dispiegamento dei ruandesi ha portato a successi eclatanti, in particolare con la riconquista di Mocimboa da Praia. Altre operazioni hanno, inoltre, permesso di dare inizio a una nuova fase di riabilitazione di alcune strade non utilizzate da mesi (Pemba – Quissanga) e di avviare le operazioni per un ritorno progressivo della popolazione locale nell’area rurale di Palma. Da non dimenticare, inoltre, la riabilitazione dell’infrastruttura telefonica e la stima dei danni che ancora continua, nella città di Mocimboa da Praia, rimasta in mano agli insorgenti per diversi mesi.

Ad oggi, nonostante i successi ruandesi- mozambicani, resta difficile quantificare la porzione di territorio totalmente recuperata e non più sotto il controllo degli insorgenti; inoltre, la coalizione non ha mai comunicato ufficialmente le cifre su eventuali perdite e feriti sofferte da parte loro. Da un punto di vista militare ora si apre una nuova fase dove le forze ruandesi-mozambicane dovranno coordinarsi con il resto delle forze SADC in campo in modo da continuare sulla striscia positiva di successi militari che hanno contraddistinto la prima metà del 2021; in questo senso potrebbero non mancare le difficoltà di coordinamento per una forza multinazionale che ora vede in campo molti eserciti.

Da un punto di vista di bisogni umanitari, una parte della popolazione sta progressivamente ritornando verso l’area rurale di Palma che sembra essere più sicura rispetto a pochi mesi fa; nonostante ciò, le operazioni militari potrebbero portare a nuovi movimenti di popolazione forzati per sfuggire ai combattimenti. Inoltre, solo nei prossimi mesi potrà essere più chiaro se le operazioni militari avranno l’obiettivo di assicurare il ritorno the colossi di gas e petrolio verso le zone di sfruttamento delle risorse per ricominciare l’implementazione dei progetti abbandonati in marzo, o se le operazioni militari avranno anche lo scopo di proteggere la popolazione civile da una nuova penetrazione terroristica.

Conseguenze di una nuova strategia: 25.000 nuovi dislocati interni a seguito degli attacchi di Maggi-Giugno

Trentanove attacchi in Maggio 2022 contro trentuno dell’anno precedente: questo il bilancio stilato all’inizio di giugno che mostra come la nuova strategia del non state armed group mozambicano affiliato all’ISIS dal 2021, sembra aver cancellato alcuni dei progressi militari che si erano registrati fra luglio 2021 e aprile 2022.

In effetti, dal luglio 2021, l’intervento ruandese sancito da un accodo col Mozambico aveva visto l’invio di circa tremila uomini per affiancare i circa quindici mila già presenti in Cabo Delgado, fra forze mozambicane, sud africane, dello Zimbabwe e del Botswana (coalizione SAMIM). Sicuramente, le forze ruandesi, meglio addestrate e equipaggiate, avevano avuto un impatto immediato nel nord est di Cabo Delgado, riuscendo ad assicurare rapidamente un cordone di sicurezza nella zona delle infrastrutture per la perforazione del futuro gasdotto gestito dalla TOTAL nella penisola di Afungi: ben presto pero, il Mozambico aveva fatto pressione sul Rwanda per avere una postura molto più offensiva e supportare il contingente SAMIM anche in altre operazioni, strategia vincente che aveva portato a riconquistare diverse porzioni di territorio, dove le Istituzioni erano scomparse da più di un anno, in particolare nei distretti di Macomia, Quissanga, Palma e Mocimboa da Praia.

Tuttavia, la grande attenzione dedicata all’area di Afungi, soprattutto per ragioni economiche e nel tentativo di esercitare pressioni affinché la TOTAL riprendesse la costruzione dell’infrastruttura del gasdotto, ha fatto si che le operazioni militari si concentrassero in particolare nella parte nord-est di Cabo Delgado, senza assicurare agli eserciti in campo e, soprattutto, alla popolazione locale, un retroterra sicuro nella parte centro sud di Cabo Delgado: dopo una seconda meta del 2021 che aveva fatto registrare diversi successi con catture di diversi elementi dello NSAG, in particolare di nazionalità mozambicana e tanzaniana, e lo smantellamento di diversi base operative, nel 2022 sembra evidente che il movimento di matrice islamica abbia ripensato ad una strategia basata meno sul confronto diretto con le forze di sicurezza e più a piccoli attacchi in diverse zone della Provincia, in modo da costringere i vari contingenti a intervenire rapidamente, provocando uno sfilacciamento progressivo in un territorio immenso da controllare.

Nella seconda meta del 2022, questi attacchi hanno portato le forze SAMIM e ruandesi ad essere efficaci nel contrastare la nuova tattica di guerriglia ma come spesso accade, gli effetti più nefasti di questa strategia li sta pagando una popolazione già provata dal prolungarsi del conflitto.

Marco Tamburro

Mozambico

Cabo Delgado Mozambico: dagli attacchi del 2017 alla crisi internazionale del 2020

Una crisi aperta che continua a essere volutamente sottovalutata

Marco Tamburro

Prima dell’ottobre 2017, la provincia settentrionale mozambicana di Cabo Delgado vantava la terza baia più grande del mondo che si trova nella capitale Pemba, che pullula di delfini, una vasta gamma di specie di pesci, coralli duri e molli. La sua lunga costa è caratterizzata da spiagge di sabbia bianca e da una moltitudine di isole che sono una destinazione perfetta per i turisti.

La scoperta di importanti riserve di gas nel bacino del Rovuma, al largo della costa di Cabo Delgado, di gas naturale liquido (GNL) – stimato come il quarto più grande del mondo – ha suscitato prospettive importanti per la popolazione. Tuttavia, i posti di lavoro promessi non si sono ancora materializzati ed un grande problema di redistribuzione della ricchezza permane tutt’oggi.

Nel frattempo, l’insurrezione ha interrotto diverse attività economica di sostentamento per la popolazione locale, oltre ai grandi progetti su GNL.

Gli investimenti GNL situati nella penisola di Afungi sono forse i contributi più significativi all’economia formale della regione, per un totale di 20 miliardi di dollari di investimenti in infrastrutture. Nel maggio 2021, la compagnia energetica francese Total ha dichiarato la forza maggiore sui suoi obblighi contrattuali per la lavorazione del GNL e ha sospeso le sue operazioni a causa della crescente insicurezza.

Questa drastica decisione è stata anche un significativo punto di pressione per il governo del Mozambico, e ha catalizzato un maggiore intervento militare nella regione. Poco dopo l’annuncio di TOTAL, il presidente Nyusi ha incontrato bilateralmente il presidente francese Macron a margine dell’Africa Financing Summit di maggio.

In ritardo, il governo ha cominciato a cercare il sostegno di altri paesi nella sua lotta contro l’insurrezione. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea, attraverso l’ex potenza coloniale Portogallo, sono intervenuti per aiutare ad addestrare i soldati mozambicani. Nel giugno 2021, la Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale (SADC) ha sancito il dispiegamento di una forza regionale per aiutare a reprimere l’insurrezione e ripristinare la stabilità nella regione colpita dal conflitto. Al momento il dispiegamento della SADC era ancora in corso. 

Ancor prima pero, le truppe ruandesi, che si trovano in Mozambico dal 9 luglio, sono guidate dal maggiore generale Innocent Kabandana. Innocent Kabandana è già stato negli Stati Uniti d’America (USA), in Canada, nella Repubblica Democratica del Congo e in Burundi. Dal 2020, ha comandato l’Accademia Militare del Ruanda.

Nel 2017 i primi attacchi furono qualificati come azioni criminali un po’ meglio organizzate rispetto agli sporadici furti o azioni violente che ogni tanto accadevano nell’estremo nord.

Con l’aumentare degli attacchi tra cui il primo davvero clamoroso a Mocimboa da Praia nell’ottobre 2017 accesero l’attenzione a livello internazionale sulla situazione a Cabo Delgado.

Secondo diverse analisi, l’insurrezione ha origini locali: i suoi membri sono principalmente cittadini mozambicani provenienti da Cabo Delgado – anche se ci sono segnalazioni aneddotiche di cittadini stranieri dalla vicina Tanzania. Gli autori sono per lo più civili. Ci sono prove anche sul reclutamento di bambini attraverso rapimenti durante gli attacchi.  Gli insorti hanno anche rapito donne e giovani ragazze, che sono poi costrette a vivere con loro come mogli o concubine. La maggior parte dei crimini perpetrati dagli insorti sono raccapriccianti, comprese le decapitazioni.

Interi villaggi sono diventati città fantasma. Mocímboa da Praia, è stata fino a poco tempo fa disabitata per quasi due anni da quando gli attacchi degli insorti nel 2019 hanno cacciato la popolazione locale. Le forze governative sono state in grado di riprendere la città solo all’inizio di agosto 2021 con l’aiuto delle forze ruandesi. La maggior parte delle persone che sono fuggite da Mocímboa da Praia e dalle città che sono state invase dagli insorti hanno cercato rifugio a Pemba, Montepuez, Mueda e altre città, con solo i vestiti sulle spalle e quel poco che riescono a portare nel loro viaggio in barca, veicolo e a piedi.

Mentre le violenze perpetrate dall’Al Shabaab mozambicana superano quelle di altri attori in quantità e gravità, è importante far luce anche sugli abusi perpetrati da altri attori. Un rapporto di Amnesty International pubblicato nel marzo 2021 ha articolato la brutalità sperimentata dai civili per mano di compagnie militari private come la Dyck Advisory Group (DAG) e le forze governative mozambicane. 

Questa ondata di insurrezione ha provocato un esodo di civili dalle regioni colpite dal conflitto. Ci sono ora circa 800.000 sfollati interni (IDP) e questo ha messo alla prova l’abilità e la capacità del governo di fornire assistenza umanitaria ai civili che fuggono dalle aree sotto attacco.  L’insurrezione ha anche spinto la gente a lasciare Cabo Delgado nelle province vicine. Le province di Niassa, Nampula e Zambezia sono particolarmente colpite; ovviamente, il supporto delle Nazioni Unite e delle ONG non manca, anche se, a livello di disponibilità di fondi, altre crisi più note e anche le necessità di risposta al covid-19 nei Paesi ‘’donatori’’, porta ancora oggi ad una grande mancanza di fondi.

La guerra a Cabo Delgado è ormai al quarto anno. La sofferenza umana è stata incalcolabile e la comunità internazionale è stata ripetutamente scioccata da rapporti di estrema brutalità.

La condizione dei civili coinvolti nella violenza a Cabo Delgado è l’obiettivo e l’interesse centrale di questo rapporto. Dall’inizio degli attacchi nella città distretto di Mocímboa da Praia il 5 ottobre 2017, circa 2800 persone sono morte e quasi 800 000 sono state sfollate dalle loro case, città e villaggi.

Nonostante le operazioni militari siano ad oggi in corso, sembra che l’obiettivo principale sia, innanzitutto, riportare la TOTAL a riaprire il progetto per lo sfruttamento del NL, piuttosto che proteggere i civili da ulteriori attacchi.

Nel 2021, anche con l’attenuazione degli effetti del covid-19 sulle agende politiche degli stati occidentali oltre che sulle casse statali, si spera che la comunità internazionale faccia fronte comune su una risoluzione pacifica del conflitto e su una maggior richiesto al Mozambico rispetto ad investimenti per la popolazione locale e maggior rispetto dei diritti fondamentali.

Marco Tamburro