Scienze cognitive

Scienze Cognitive: Conoscere l’”IO” per interpretare le future sfide alla sicurezza

Lanfranco Caiola

Le scienze cognitive studiano il modo in cui opera, funziona e si comporta la mente umana. Come settore di studio scientifico, le scienze cognitive richiedono un’applicazione multidisciplinare si spazia dall’ambito filosofico allo psicologico, neuropsicologico, ma anche all’ambito medico, statistico-metodologico e organizzativo, fino ad includere studi che interessano i processi che legano l’uomo alla liberta di scelta e non da ultimo le interconnessioni con intelligenze non biologiche o IA.

Lo sviluppo di conoscenze teoriche e competenze applicative per l’analisi e la gestione di processi decisionali individuali e collettivi, sono sempre più coordinate nelle scienze cognitive per un approccio sistemico multidimensionale.

Lo studio interdisciplinare dei sistemi intelligenti, finalizzato alla comprensione del sistema cognitivo, sta con l’evoluzione dell’IA acquisendo nuova polarità all’interno non solo del settore accademico scientifico, ma anche nel dibattito quotidiano e nel pensiero comune. Le scienze cognitive attualmente stanno fornendo una base scientifico filosofica alla formazione e creazione di modelli simulativi di intelligenze non biologiche e reti neurali.

Il professor William Bechtel[1], ha definito le Scienze cognitive  come “ lo studio interdisciplinare dei sistemi intelligenti – naturali e artificiali – che si avvale di contributi di discipline come la linguistica, la psicologia, l’intelligenza artificiale“.

Da quella definizione le scienze cognitive hanno continuato a espandere i proprio terreno di studio, andando a creare una rete di interconnessioni che oggi annovera tra le discipline interessate: la psicologia cognitiva, la neurofisiologia, la neuroscienza cognitiva, l’intelligenza artificiale (IA), la linguistica cognitiva, la filosofia della mente, nonché l’informatica (coinvolta soprattutto nella formazione di modelli simulativi come le reti neurali).

Branche della ricerca stanno cercando di applicare la metodologia e le teorie di studio e ricerca delle neuro scienze anche a indirizzi fino a questo momento esclusi.

L’antropologia, la genetica, l’etologia, l’economia (si pensi alla teoria dei giochi e il neuromarketing), la scienza cognitiva della matematica e persino all’arte.

In ogni caso ciò che qualifica principalmente le scienze cognitive sin dal loro nascere, vedi il MIT di Boston nel 1956, è il loro carattere tipicamente multidisciplinare, in grado di coniugare discipline anche molto differenti tra loro, al fine di giungere alla comprensione del funzionamento cognitivo.

Metodologia delle scienze cognitive

Attualmente gli scienziati cognitivi si occupano principalmente di modellazione e teorizzazione computazionale, nel tentativo di capire la mente, l’intelligenza e il funzionamento del concetto di pensiero. I principali centri di studio sono attualmente presso l’Università degli Studi di Milano, Roma tre a Roma, o la Chapman in California e l’Università del Texas a Dallas (solo per citare alcune eccellenze nazionali ed estere)

Tali studi prevedono la sperimentazione con soggetti umani, organizzati in gruppi, per simulare raggruppamenti sociali, o presi come singoli. Spesso sono gli studenti stessi che si prestano a partecipare a esperimenti di laboratorio riguardanti uno degli aspetti pratico/teorici delle Neuro Scienze, o la reazione dell’apparato a stimoli esterni studiati in condizioni (che si spera…) controllate.

Questi esperimenti in genere prevedono un ragionamento deduttivo, in cui i soggetti devono applicare idee con risultati pratici volti a convalidare o meno una tesi.

La scienza cognitiva è nata dal desiderio di comprendere non tanto chi siamo in termini filosofici ma per cercare di comprendere il “perché pensiamo”, le origini e motivazioni del ”comportamento umano” e se le nostre azioni o interazioni possano essere non solo un segno del nostro io, ma possano essere alterate da stimoli esterni o fisiologici.

Ampliando il campo

In ambito medico, man mano che si scopre di più sui percorsi neurali, sulle risposte psicologiche e psicosomatiche relative a stimoli sia interni che esterni e aumentiamo l’interrelazione con tecnologie come le IA, le scienze cognitive diventano sempre più chiarificatrici grazie ai progressi nelle tecniche e tecnologie di sperimentazione cognitiva, gli scienziati si avvicinano a scoperte che potrebbero curare malattie neurodegenerative debilitanti quali ad esempio il Parkinson.

L’universalità dei processi decisionali: i meccanismi neurocognitivi che si innescano nella presa di decisione

Il ragionamento universale innescato dall’approccio molteplice caratterizzante le Scienze Cognitive, ben si adatta al concetto di sicurezza che abbiamo sviluppato negli ultimi anni.

La cultura della sicurezza, oggi si basa su conoscenze approfondite in un mondo dominato dalla complessità della realtà. I cambiamenti rapidi del nostro tempo dovuti alla globalizzazione, e contraddistinti da un’accelerazione complessa degli eventi, richiede un approccio altamente interconnesso.

Il mondo odierno, e le società che lo compongono sono un sistema complesso in ogni suo aspetto e chi si occupa di sicurezza, a diverso titolo e grado, non può più operare senza tener conto delle varie sfaccettature e interconnessioni in tutti i settori della quotidianità. La maggior parte degli eventi si svolgono all’interno di sistemi dinamici complessi, imprevedibili, e ciò rende necessario sviluppare compiutamente il binomio consapevolezza/conoscenza secondo un approccio multidimensionale, tipico dei sistemi scientifici complessi, capace d’ integrare tutte le azioni umane.

Se la comprensione profonda dei processi cognitivi consente di analizzare e gestire i processi psicologici e decisionali, siano essi individuali che collettivi, l’applicazione di tale metodo consentirà un giorno di giungere a quella che viene definita “l’Equazione della sicurezza”.

La comprensione del pensiero, allo scopo di teorizzare principi fondamentali come: rappresentazioni mentali e meccanismi computazionali razionali e dimostrabili è un interesse emerso negli anni ’50. Un percorso razionale e dimostrabile (quindi prevedibile) può essere applicato alle scelte collettive proprie o indotte, che coinvolgono molteplici aspetti e sono determinanti nelle sorti di un’attività o della sicurezza di una collettività.

Lo studio delle scienze cognitive nei processi decisionali permette di analizzare e progettare interventi atti a migliorare la qualità e l’appropriatezza delle decisioniriducendo il rischio di errore. Si tratta di una risorsa volta a supportare scelte in contesti complessi, in cui le ricadute delle decisioni, possono essere anche devastanti a livello sociale.

L’integrazione fra neuroscienze e scienze cognitive applicate, consente oggi di progettare percorsi basati sull’uso di strumenti tecnologici evoluti. Attraverso questi sistemi è possibile migliorare l’organizzazione del lavoro e buone pratiche che ne garantiscono la sicurezza e la stabilità per un benessere sociale condiviso: la tecnologia diventa così un sostegno ai processi decisionali. Le scienze cognitive evolvendo all’interno della società, che contribuiscono a plasmare, hanno aggiunto alle domande sull’agire, sull’arbitrarietà e deliberatezza del pensiero quelle collegate all’interazione di quest’ultimo con macchine e intelligenze artificiali.

Scienze cognitive e sicurezza allargata

Il processo decisionale si sintetizza nella scelta tra possibili soluzioni, derivanti da: intuizione o ragionamento (o entrambi).

Mentre sono aspetti personali a muovere l’intuizione del decisore e si basano su valori ed esperienze, fatti e dati certi ed oggettivi caratterizzano l’approccio ragionato.

Secondo uno schema classico il processo che porta a una decisione può essere riassunto in cinque fasi.

  • Identificare l’obiettivo;
  • Raccogliere informazioni;
  • Trovare soluzioni;
  • Valutare le conseguenze;
  • Compiere la scelta.

Tali processi vengono influenzati dalla situazione di partenza:

  1. stato di certezza,
  2. stato di rischio,
  3. stato di incertezza,

ma anche dalle condizioni umane che hanno creato tali condizioni, e dalla misura in cui esse siamo spontanee o indotte da manipolazioni esterne, psicologiche, ambientali o materiali.

Grazie a questo livello di analisi il decisore, che tiene conto solo delle classiche 5 fasi e delle 3 variabili è in grado di conosce solo lo stato di fatto con un’analisi psicosociale della realtà che ha creato la situazione a cui è chiamato a rispondere, può valutare le probabili conseguenze delle sue scelte, capire e creare un modello di previsione e azione per evitare che tali condizioni possano ricrearsi.

Se da un lato l’analisi psicologica compiuta dalla “psicologia delle masse” mira a studiare l’influsso dei fenomeni collettivi sul comportamento individuale, le scienze cognitive mirano ad integrare ogni possibile aspetto indagabile alla ricerca delle interconnessioni che rendono possibili tali comportamenti, fornendo una spiegazione multidimensionale a problemi complessi che possono spaziare dal concetto di sicurezza allargata, all’influenzabilità del libero arbitrio, al rapporto con intelligenze non biologiche.


[1] William Bechtel, Filosofia della mente, Il mulino, 1992, ISBN 88-15-03684-9OCLC 797567017. URL consultato il 16 dicembre 2022.

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Al passo con i tempi

Lanfranco Caiola

La rivoluzione industriale segnò il punto d’inizio dello scollamento tra i ritmi della natura e quelli della società civile. L’avvento delle macchine per la produzione in serie porterà un cambiamento radicale nelle abitudini e nelle attività umane, cambiamenti che rappresentano oggi uno dei più potenti fattori di trasformazione dell’ambiente naturale.

In questi duecento anni il divario tra i ritmi della terra e quelli dell’uomo, hanno raggiunto una dimensione facilmente percepibile. Lo sviluppo tecnologico ed i suoi effetti sull’ambiente naturale nel primo e nel secondo mondo seguono ritmi, molto più veloci e spesso forzati, di quelli caratteristici degli ecosistemi naturali. Si può affermare che, i tempi geologici di evoluzione della terra e quelli biologici di evoluzione della natura a noi più vicini, risultano sempre più incompatibili con quelli dell’evoluzione tecnico-scientifica del genere umano.

Il divario nella scala dei tempi e lo sviluppo di tecnologie e prodotti ad alto potenziale inquinante, sono fattori di un modello di crescita orientato più al consumo che all’uso sostenibile delle risorse naturali. Questo tipo di impostazione culturale, ha generato un paradigma che determina oggi un degrado generalizzato delle componenti ecosistemiche e che comincia ad assumere caratteristiche di irreversibilità. L’economia classica e l’avvento del liberismo ci avevano spinto a credere che la terra, fosse un contenitore con infinite risorse e dall’illimitata capacità portante. Questa credenza ha impedito per anni un’analisi oggettiva delle risorse e delle capacità della terra.

Alla metà del secolo scorso un approccio più oggettivo alla realtà ha mostrato che il pianeta terra è in realtà un sistema chiuso, di dimensioni finite, vincolato a limiti biofisici, che non consentono una crescita infinita, né tantomeno un’immissione di rifiuti ed inquinanti oltre la sua capacità portante.

Responsabilità sociale e complessità ecologica

L’apprendere delle conseguenze nefaste delle attività dell’uomo sul sistema terra, ha favorito alla fine del novecento la nascita di un nuovo approccio allo sviluppo, incentrato non più sulla produzione ma sulla responsabilità sociale della stessa. Un approccio morale all’economia rappresenta il nuovo punto di partenza, per ridisegnare il progresso all’interno di un sistema che, coinvolga anche l’uomo e le sue attività.

Modelli etici di comportamento e norme di condotta, stanno caratterizzando un approccio che tenga presente standard di sostenibilità ambientale, economica e sociale.

Standard etici di comportamento per le imprese quali:

  • Legittimità orale
  • Equità ed uguaglianza
  • Tutela della persona
  • Diligenza
  • Trasparenza
  • Onestà
  • Riservatezza
  • Imparzialità
  • Tutela ambientale
  • Protezione della salute

rappresentano l’ossatura su cui si ipotizza dovremmo costruire la nostra nuova economia, coadiuvati da sistemi di controllo e monitoraggio volti più ad istruire che ad ammendare. In questo modello di produzione chi si trova nella posizione di decidere il futuro dell’attività è chiamato all’osservanza di doveri fiduciari nei riguardi degli stakeholder. La responsabilità sociale non consiste solo nel rispetto degli obblighi giuridici ma anche nell’investire in capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate.

Approccio inclusivo per uno sviluppo dinamico

Il concetto della terra come sistema chiuso ha plasmato non solo l’idea di uno sviluppo universalmente responsabile, ma anche di un approccio allo studio dei fenomeni naturali in termini di connessioni e relazioni all’interno di un contesto con regole ben precise. il concetto di pensiero sistemico che ne scaturì (F. Capra, 1997) può essere definito come: “un complesso di componenti interagenti” (von Bertalanffy, 1969).

Il comportamento di un sistema, il suo utilizzo e sfruttamento, non possono esser slegati dalla realtà con cui sono interconnessi. I risultati sono prevedibili e si può affermare che il sistema terra non può essere compreso se viene considerato come una semplice somma delle parti che lo costituisce tralasciando le  proprietà sistemiche che lo intereconnettono.

Lo Sviluppo Sostenibile

L’ integrazione delle discipline socio-economiche con quelle scientifiche, ha generato le basi della Teoria dello Sviluppo Sostenibile (E. Tiezzi 1999).

Grazie ad un solido background teorico questo approccio sistemico e multidisciplinare, consente la valutazione quantitativa della sostenibilità, dei processi produttivi e delle politiche di produzione e sfruttamento.

Attraverso l’analisi dell’utilizzo delle risorse, in relazione all’utilizzo dell’energia utilizzata e prodotta per la realizzazione di un processo, rende possibile calcolare la sostenibilità dello stesso e il suo impatto sul sistema. Utilizzando il “valore energetico” come unità di riferimento, è possibile includere nella valutazione il capitale naturale e quello umano, che in altri approcci rischia di essere escluso. L’integrazione di tali differenti approcci metodologici dimostra come sia possibile pervenire ad una valutazione ambientale che sia in grado di orientare le scelte di pianificazione e l’utilizzo delle risorse naturali (M. Ruth, 1993).

Il capitale naturale rappresenta oggi, il limite all’interno del quale modellare il nostro progresso. Le politiche di viluppo, non potranno più appellarsi esclusivamente, al carattere propulsivo delle tecnologie innovative e al carattere auto-equilibrante del mercato. Questa nuova visione, richiede lo sviluppo di modelli socioeconomici, con alla base
un approccio interdisciplinare che, consenta una pianificazione più precisa e attenta alle dinamiche del Sistema Terra e che orienti, il decisore politico, verso una visione integrata di aspetti economici, ecologici e sociali, allo scopo di realizzare una pianificazione sistemica e non meramente speculativa.

Questa forma mentis ha portato allo sviluppo di modelli socio-economici che presuppongono, l’affermazione di un rapporto stretto tra economia ed ecologia, che oggi si concretizza nella moderna teoria economica dell’Economia Ecologica(R. Costanza, 1997). La complessità delle metodologie e le difficili scelte che derivano da quest’approccio, sembrano però non indicare solo la via ad uno sviluppo sostenibile, ma anche la direzione verso cui dovremmo indirizzare, uno sviluppo tecnologico, che ci permetta di ricongiungerci con il sistema terra e tornate al passo con i suoi tempi.

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La rivoluzione digitale rivoluziona il lavoro

di Maurizio Pimpinella

Da grandi, i nostri figli faranno un lavoro che ancora non esiste ma non sarà per colpa della trasformazione digitale. Impariamo a gestire il cambiamento con intelligenza, premiando merito, competenza ed ambizioni

“Cosa vuoi fare da grande?” Era la classica domanda che da bambini, quando frequentavamo le scuole elementari o le medie, ma anche poi dopo alle superiori, ci veniva spesso rivolta. In effetti, poche come questa domanda erano in grado di stuzzicare le ambizioni e i sogni di ciascuno di noi tanto che le risposte potevano essere le più disparate.

C’era, infatti, chi voleva imitare il lavoro del proprio padre, magari semplice operaio o artigiano, chi ambiva a diventare medico o veterinario, chi giornalista o avvocato chi, invece, ambiva a diventare calciatore, attore o ballerina. Poi vi erano quelli che, ancora più ambiziosi o forse solo più sognatori, volevano fare gli astronauti, gli scienziati o fare scoperte che avrebbero dato nuove prospettive alla storia della nostra civiltà.

Poi, si sa, i casi della vita così come le nostre stesse inclinazioni e preferenze ci portano a percorrere spesso strade diverse, per cui ciò che siamo diventati è molto diverso da quello che in realtà avevamo immaginato da bambini, e non necessariamente in peggio.

Oggi, però, è probabile che uno studente delle elementari non sia in grado di rispondere alla domanda con cui ho esordito perché, come evidenziato da una ricerca recente del World Economic Forum, il 65% dei bambini che attualmente frequenta le scuole elementari da grande farà un lavoro che ancora  non esiste.

Avreste mai immaginato 10 anni fa la diffusione del lavoro di youtuber e di content creator? Oppure dell’esistenza dei web influencer o dei data scientist? Ovviamente, no, e questo perché la tecnologia corre veloce, molto più veloce anche dell’istruzione e delle norme: la digital transformation, una serie di cambiamenti tecnologici ma anche culturali nel mondo in cui viviamo, può rappresentare un’opportunità non solo per le aziende che ne colgono i vantaggi, ma anche per chi vuole costruirsi una carriera o per chi vuole ricollocarsi.

Per riuscirci, però, è necessario anche abbandonare le vecchie convinzioni e le sovrastrutture culturali, quelle che in un webinar che ho moderato nei giorni scorsi la Country Manager Amazon di Italia e Spagna di Amazon Mariangela Marseglia ha definito “ideologismi”, e pensare in un modo nuovo ed orientato al futuro, ciò che probabilmente buona parte dei nativi digitali stanno già facendo in maniera del tutto naturale.

Tra questi ideologismi, ad esempio, rientra la convinzione che robot, automazione ed intelligenza artificiale “rubino il lavoro” agli operatori umani. L’idea diffusa è quindi che la trasformazione digitale nel suo insieme riduca lo spazio e le possibilità di lavoro per le persone, con l’evidente effetto di produrre schiere di nuovi disoccupati. La realtà, invece, è che la trasformazione digitale ha contribuito a cambiare i lavori, il mondo e il mercato del lavoro, proprio come ha inciso su qualsiasi altro aspetto delle nostre vite, in modo, per la verità, simile a quanto è naturalmente successo nel corso dei decenni.

Da sempre, infatti, i lavori cambiano, si rinnovano o diventano obsoleti a causa del progresso tecnologico ma non per questo oggi il mercato del lavoro è composto solo da disoccupati. Anzi, un recente studio operato dai ricercatori dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), dell’Università di Trento e dell’Istituto di Statistica della Provincia di Trento (ISPAT) dimostra che, ad esempio nel campo della robotica e dell’automazione, tutte quelle figure professionali che, a diversi livelli, si occupano della programmazione, dell’installazione e della manutenzione dei robot, sono aumentate di circa il 50% in poco meno di dieci anni.

Se poi si pensa che tutto questo possa influire negativamente sullo svolgimento di mansioni routinarie ci sbagliamo. I risultati dell’indagine suggeriscono anzi che nelle zone a più intensa robotizzazione la quota di occupazioni routinarie di tipo cognitivo sia addirittura aumentata. Dobbiamo pensare al mercato del lavoro (almeno in un modello ideale cui aspirare) come ad un sistema di vasi comunicanti per cui gli occupati passano (proprio come i liquidi) da un contenitore all’altro in base alle nuove opportunità e competenze creando un nuovo equilibrio nell’ecosistema stesso.

L’aspetto su cui dobbiamo lavorare è piuttosto quello di evitare il rischio che si accentuino le diseguaglianze, la vulnerabilità e l’esclusione sociale delle persone, e la chiave sono: nuovi programmi di educazione, il ripensamento delle modalità di sostegno attivo al lavoro e un welfare state nuovo e non più ancorato ai canoni sociali e giuslavoristici della seconda metà del XX Secolo.

Ciò che dobbiamo fare ora è, invece, imparare a gestire con intelligenza, apertura mentale e competenza il cambiamento, incentivando la maturazione di competenze nuove, ramificate e diversificate che interagiscono tra loro in un mix di soft ed hard skills, premiando sempre di più il merito e l’intraprendenza.

La fine del lavoro per colpa dell’avvento delle macchine è ancora molto lontana e, in generale, ben poco plausibile. E’, purtroppo, più probabile che ciò avvenga per mancanza di competenze, capacità di adattamento e per la poca curiosità nei confronti dei sentieri meno battuti, ciò in cui risiede, invece, l’essenza stessa del genere umano.