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Il Piano Mattei prende forma: più trade e meno aid

Marco Tamburro

È entrata in vigore già dal 14 gennaio 2024 la legge n. 2/2024, che definisce gli ambiti di intervento del “Piano Mattei” e istituisce la Cabina di regia preposta al coordinamento e al monitoraggio dell’implementazione del piano. In quasi un anno, diversi soggetti hanno già beneficiato dei fondi, tra cui diverse organizzazioni della società civile, per l’implementazione di progetti su diverse tematiche nei Paesi prioritari, tra cui Algeria, Costa d’Avorio, Egitto, Etiopia, Kenya, Libia, Marocco, Mozambico, Repubblica Democratica del Congo, Rwanda, Sud Africa e Tunisia.

Dopo circa un anno di implementazione, si possono tirare già alcune conclusioni perché si intravedono diversi elementi, chiari e meno chiari, che caratterizzano l’attuazione del paino:

  • Un approccio top-down e il rapporto fra AICS e DGCS: se già nel gennaio 24 l’Unione Africana si era detta ‘’sorpresa’’ del lancio del piano senza consultazioni avvenute fra l’organo di coordinamento africano e il Governo italiano, resta un carattere molto centralizzato a livello decisionale, con l’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (AICS) che spesso viene consultata sulle iniziative del Piano Mattei, ma non riveste certo un ruolo decisionale. Questo perché, anche solo per un mero aspetto legislativo, l’AICS risponde alla normativa 125/2014 (legge sulla cooperazione), mentre il Piano Mattei al decreto-legge del 2024, slegandolo così di fatto da tutta quella normativa burocratica che caratterizza il modus operandi di AICS. Di conseguenza, all’interno del Ministero affari esteri, è la DGCS[1] ad avere un ruolo di primo ordine e ad essere l’organo decisionale sulle iniziative, generando anche una sorte di rivalità con l’AICS.
  • Un approccio dinamico e comunicativo: se nel gennaio 2024 l’Unione Africana si era espressa in quei termini, la cabina di regia non ha però mancato di coltivare, dopo il lancio, i rapporti con i partners africani che in diverse occasioni, sono stati visitati e con cui si sono intavolate diverse discussioni sulle loro priorità. Ad oggi, quasi tutti i Paesi prioritari hanno visto almeno due missioni nell’arco degli ultimi 24 mesi di rappresentanti di alto livello di AICS-DGCS, e sempre alla presenza degli ambasciatori italiani presenti in ogni Paese. Queste missioni non hanno mancato di mettere in agenda anche incontri con la società civile italiana presente nei Paesi africani partners oltre che rapporti stretti con ENI.
  • Un’eleggibilità ‘’allargata’’: essendo il Piano attuato sotto un decreto-legge diverso dalla legge sulla cooperazione, questo dà molto più margine di manovra alla cabina di regia di Roma decidere in autonoma e anche per assegnazione diretta, dove e come destinare i fondi. Diversi enti, si trovano così in posizione privilegiate per la proposta di fondi, come per esempio diverse iniziative in fase di disegno da parte delle Regioni italiane che poi lascerebbero la società civile implementare nei Paesi selezionati. Ovviamente, anche per rimarcare il peso politico del Paino ed accentuare il carattere univoco del ‘’sistema Italia’’ da portare avanti, alcuni partners sono stati privilegiati nelle interlocuzioni con la DGCS e il MAECI, come ad esempio l’Eni, sia per progetti rivolti a scopi sociali sia per iniziative più di business, condiviso fra imprese italiane e africane: è l’esempio, della filiera del caffè, che sembra essere il focus tecnico di diverse azioni lanciate in Paesi come Tanzania, Kenya e Uganda e dove grandi imprese italiane avranno il compito di creare partenariati con imprese africane nel settore (vedi Illy e Lavazza).
  • ‘’I nodi da scogliere’’ e le domande per il futuro: in prospettiva, soprattutto le Organizzazioni della società civile hanno avuto difficoltà a capire le modalità di approccio e presentazione progetti, vedendo però contemporaneamente somme considerevoli già assegnate ad altri partners. Quanti saranno davvero i fondi ‘’nuovi’’ disponibili anno per anno, e quanti progetti già in corso o con fonti di finanziamento diverse (e.i. investimenti autonomi di ENI) saranno calcolati nel bilancio dell’investimento del Piano?  AICS risentirà della presenza del Piano Mattei in termini di fondi disponibili? Questi i maggiori punti da seguire nel prossimo futuro per il monitoraggio del Piano Mattei.

Marco Tamburro


[1]  Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo è l’organo del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale che si occupa di definire gli obiettivi, la priorità e gli indirizzi strategici degli interventi di cooperazione allo sviluppo[1], di valutarne gli impatti e di verificare il raggiungimento degli scopi prefissati.

Inoltre, rappresenta l’Italia nelle sedi internazionali deputate alle politiche di cooperazione, sovrintende all’erogazione di contributi statali alle ONG ed agli interventi di emergenza umanitaria.

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USAID ed Europa: perché la chiusura di USAID è un ulteriore atto di sfida all’Europa

Marco Tamburro

L’83% dei programmi gestiti dall’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (USAID), in un’epurazione da sei settimane, ha ufficialmente eliminato interi programmi di assistenza emergenziale e per lo sviluppo che avevano richiesto decenni di lavoro.

Il Segretario di Stato Marco Rubio ha annunciato i massicci tagli lunedì, confermando che circa 5.200 dei 6.200 programmi globali di USAID sono stati chiusi. Le iniziative superstiti – meno di un quinto del precedente portafoglio di aiuti americani – saranno assorbite dal Dipartimento di Stato. ‘’ Finanziamo i programmi indipendentemente dal fatto che siano allineati o meno con la politica estera. È ridicolo…’’ : ovviamente dipende dalla prospettiva e i criteri che si usano, considerando che gli Stati Uniti hanno ‘’scelto’’ di investire circa 9.9 miliardi di dollari solo nel 2024 per i piani di risposta umanitari elaborati dalle nazioni Unite in tutto il Mondo che sicuramente non influivano direttamente sulla politica americana, ma miravano a salvare milioni di vite attraverso programmi d’urgenza.

Si potrebbero citare anche i cento miliardi complessivi investiti nel programma PEPFAR creato da George W. Bush e che ha sempre ricevuto un voto bipartisan al suo finanziamento. La nuova amministrazione ha annunciato la sospensione degli aiuti in concomitanza con l’ordine di ritirare gli Stati Uniti dal coordinamento globale sui programmi sanitari e climatici e con la minaccia di coinvolgere gli alleati europei in una guerra commerciale. La decisione è legata comunque anche al panorama di politica interna, considerando la priorità dell’amministrazione Trump di ridurre la macchina e le spese federali.

L’improvviso congelamento degli aiuti esteri statunitensi è diventato un chiaro avvertimento del cambiamento dell’approccio degli Stati Uniti all’impegno globale e fa pressione sui governi europei per contenerne le conseguenze. Collettivamente, l’Unione Europea è tra le maggiori fonti di aiuto allo sviluppo del mondo, con oltre 52 miliardi di dollari all’anno. Sul breve periodo, forse la mossa può effettivamente essere interpretata come una sfida indiretta all’Europa che potrebbe dover aprire un nuovo fronte di negoziati e sforzi politici e finanziari, per colmare il gap lasciato scoperto dai fondi americani, soprattutto sul continente africano.

Dall’altra parte, uno scenario possibile, per quanto cinico e molto poco etico, potrebbe vedere gli Stati Uniti tornare a negoziare in bilaterale con ogni partner africano dei possibili aiutati ma legati alle concessioni sulle risorse naturali di ogni stato e i vantaggi economici delle imprese americane.

In questo caso l’Unione Europea si troverebbe a intrattenere rapporti con gli Stati africani ma in competizione con la nuova postura statunitense votata solo agli affari, finanziare le ONG e le Nazioni Unite per i programmi umanitari e di sviluppo senza offrire i vantaggi economici che il competitor americano offrirebbe. Con una disponibilità finanziaria sempre più ridotta a fronte del nuovo riarmo sul fronte dell’Est Europa, l’Unione Europea dovrà dimostrare molta unione e anche cercare di coinvolgere più direttamente dei Paesi che potrebbero parzialmente sostituirsi agli Stati Uniti nel finanziamento dei programmi di sviluppo e emergenze, come Emirati Arabi, Qatar e Arabia Saudita.

Questi Paesi, in realtà, hanno già aumentato i loro contributi e coinvolgimento nell’assistenza umanitaria, come l’Arabia Saudita che ha contribuito nel 2024 con 1.2 miliardi di dollari ai piani di risposta umanitari, seguita anche dagli Emirati Arabi con 787 milioni, il Qatar con 483 milioni e il Kuwait con 51 milioni[1].

Diversificare gli interlocutori e aprire nuove forme di finanziamento e dialogo sembra essere l’unica strada per l’Unione Europea per far fronte alla nuova aggressività e ostilità americana, che ridisegna il panorama internazionale.

Marco Tamburro


[1] https://fts.unocha.org/global-funding/donor-grouped/2024?order=total_funding&sort=desc

M23 i

Crisi in DRC: chi sono gli M23 e le mire espansionistiche del Rwanda

Marco Tamburro

L’offensiva su Goma, nel Nord Kivu, da parte dell’M23 è stata lanciata a gennaio ed è sostenuta, ancora una volta, dal Rwanda. La presa della capitale del Nord Kivu è durata dal 23 al 30 gennaio. L’offensiva fa parte della più ampia campagna espansionistica dell’M23 nelle province del Nord e del Sud Kivu della RDC, ripresa nell’ottobre 2024 dopo una pausa. Nel gennaio 2025 i ribelli dell’M23 hanno compiuto una rapida avanzata nelle regioni del Kivu, prima conquistando Goma e poi Bukavu nel Sud Kivu. Mentre si allarmano i vicini Uganda e Burundi, anche gli organi Istituzionali come l’Unione Africana e gli Stati del sud est (SADC) sono alla ricerca di una mediazione politica. Al di là del noto supporto rwandese, l’M23 è un’organizzazione paramilitare. È storicamente considerata filo-ruandese per la presenza maggioritaria di tutsi, e parte del gruppo dell’Alleanza del fiume Congo (AFC). L’M23 è composto da ex ribelli del Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo (CNDP) integrati nell’esercito congolese in seguito all’accordo di pace firmato il 23 marzo 2009 tra il CNDP e Kinshasa, che si sono poi ammutinati nell’aprile 2012, ritenendo che il governo congolese non stesse rispettando i termini dell’accordo.

Già nel 2012, i ribelli dell’M23 hanno conquistato gran parte del Nord Kivu e il 20 novembre 2012 già presero il controllo di Goma. Questo atto di guerra scatenò una forte mobilitazione della comunità internazionale per evitare una nuova deflagrazione nella regione. Durante la mediazione che ha riunito i Paesi africani dei Grandi Laghi, si raggiunse un accordo per il ritiro dell’M23 da Goma, in cambio dell’apertura di negoziati con le autorità congolesi.

Nel novembre 2021, l’M23, che fino ad allora era rimasto discreto, è tornato attivo nella Repubblica Democratica del Congo e, dal 2022, ha intensificato la sua offensiva nella regione del Kivu, prendendo il controllo di aree strategiche.

Ovvio però, che la presenza militare dell’M23 e del suo leader, non distolgono l’attenzione da quello che è il vero protagonista della strategia dietro i recenti attacchi, cioè Paul Kagame. L’Est del Congo è ricca di minerali e altre risorse naturali, e la presenza di gruppi armati e scarso controllo da parte del governo di Kinshasa, rendono molto più facili il controllo e l’esportazione illegale di queste risorse.

Incredibile il fatto che il Rwanda, che sarebbe in teoria poverissimo di coltan, sia un grand esportatore verso l’UE, tanto da aver sottoscritto un accordo con la Commissione europea nel febbraio 2024[1].

Il 13 febbraio, il Parlamento europeo ha votato a larga maggioranza per sospendere un accordo di cooperazione con il Ruanda su un trio di minerali fondamentali (The so-called 3T minerals — tin, tungsten, tantalum) per la transizione energetica pulita, citando i loro legami con le violenze in corso nella Repubblica Democratica del Congo.

Le collaborazioni fra l’UE e il Rwanda non finiscono qui, e gli imbarazzi dell’UE riguardano anche i 320 milioni di euro su climate-proof cities, 100 milioni su educazione primaria, e i 21 milioni per la missione rwandese nel Nord del Mozambico a protezione del gasdotto TOTAL, che dovrebbe poi rifornire anche l’UE nella sua strategia di diversificazione di approvvigionamento.

Risorse naturali, gas, Unione Europea ed etica, non vanno sempre d’accordo.

Marco Tamburro


[1] https://ec.europa.eu/commission/presscorner/detail/en/ip_24_822

Burundi

Venti di colpo di Stato in Burundi: la fragilità dello stato e l’effetto Rwanda

Marco Tamburro

L’offensiva verso la capitale della provincia del Nord Kivu, Goma, da parte dell’M23, è stata rilanciata a gennaio di quest’anno dopo diversi mesi di calma apparente. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali, l’apparato militare dell’M23, moderno e sofisticato, viene finanziato da tempo dal Rwanda. Ci sono voluti solo pochi giorni, fra il 23 e il 28 gennaio, per prendere prima l’aeroporto e poi i punti chiave di Goma. Ai primi di febbraio, è toccato poi anche a Bukavu, capitale del Sud Kivu, cadere nelle mani dei ribelli rwandesi con una precipitosa ritirata anche degli altri contingenti burundesi e sudafricano.

Se l’Unione Africana e la SADC hanno cercato di avviare dei negoziati direttamente col Rwanda per cercare una soluzione diplomatica, la regione resta una grande polveriera. Se il Rwanda ha delle chiare mire sul controllo dei Kivu per ragioni di sicurezza interna e grande presenza di materie prime, dall’altra parte il Burundi si trova in una posizione di estrema fragilità: geograficamente, al momento il Burundi si trova con un movimento pro-Rwanda come l’M23 alle porte del Paese dislocato su tutta la frontiera, oltre al confine chiuso da tempo col Rwanda. Facile immaginare come l’M23, se volesse, avrebbe facile accesso a vari punti della frontiera fra Rwanda e Burundi per sfruttare la debole presenza dell’esercito burundese in vari punti. Se però, a questo punto, un attacco imminente non sembra essere previsto, potrebbe anche non essere necessario se si volesse arrivare, in un altro modo, ad avere un nuovo regime politico molto più favorevole a Kigali. In Burundi, una storica minoranza tutsi ha in mano la maggior parte dell’economia e dell’esercito, a fronte della maggioranza della popolazione di etnia hutu. Inoltre, c’è da considerare anche la presenza della milizia Red-Tabara (Résistance pour un État de Droit au Burundi), milizia ribelle formatasi nel 2015 in seguito alla crisi politica del Paese e sostenuta sempre dal Rwanda.

In questo quadro la leadership hutu del Burundi, guidata da Évariste Ndayishimiye, sente tutta la pressione che si aggiunge alla precaria situazione del Paese: penuria di carburante, potere di acquisto delle famiglie sempre più ridotto, malnutrizione cronica e insicurezza alimentare esacerbati dal rifiuto politico di riconoscere questa situazione come vera crisi umanitaria.

In questo quadro ONG e agenzie UN lavorano da diversi anni per mitigare la crisi cronica del Paese, ma sono anche attenti alla sicurezza del loro personale se la situazione dovesse precipitare. Proprio per questi motivi, a metà febbraio, la rappresentante del programma alimentare mondiale (WFP) aveva diffuso delle istruzioni di sicurezza interne al PAM sui social media. In queste istruzioni, il WFP invitava il suo personale a fare scorte di cibo, acqua e carburante per due settimane; una raccomandazione ritenuta allarmistica dalle autorità burundesi, che l’hanno vista come un tentativo di seminare il panico tra la popolazione. Per questo motivo, Il governo ha deciso di espellere la rappresentante del WFP, e la responsabile della sicurezza dell’organizzazione che hanno lasciato il Paese il 14 febbraio.

In questo clima, è facile percepire che la presenza delle forze burundesi prima sul territorio dell’RDC e poi in posizioni difensive, oltre alla presenza del contingente sudafricano che si è ritirato dall’RDC, continuino a generare tensioni col Rwanda; nonostante ciò, il 3 febbraio, il presidente Ndayishimiye ha annunciato un patto di non belligeranza che dovrebbe scongiurare un’aggressione del Rwanda, ma non si sa se questo includa anche l’M23. La tensione però non diminuisce infatti, il 27 febbraio, durante un comizio pubblico a Bukavu, alla presenza di Corneille Nangaa, leader dell’M23, due distinte esplosioni hanno fatto undici morti; il leader dell’M23 ha affermato che le granate utilizzate nelle esplosioni sono dello stesso tipo di quelle usate dall’esercito del Burundi nella RDC.

Nei prossimi mesi, sarà ovviamente fondamentale capire quale sarà l’evoluzione del conflitto fra M23 e RDC, se le Istituzioni internazionali sanzioneranno il Rwanda e se gli altri attori regionali saranno in qualche modo colpiti da conseguenze indirette. Nello specifico contesto del Burundi, si delineerà meglio quale anima riuscirà a migliorare la posizione del Paese, se si arriverà ad una normalizzazione dei rapporti col Rwanda o se la questione etnica esacerberà i conflitti interni come in passato.

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Il futuro dell’intervento militare in Mozambico

Marco Tamburro

La missione dei Paesi del Sud-Est dell’Africa (SADC) in Mozambico dovrebbe concludersi a luglio, ma alcune truppe rimarranno, poiché i Paesi vicini temono che l’insurrezione jihadista a Cabo Delgado stia riprendendo piede

Nel corso di tre anni, le forze della SADC hanno aiutato l’esercito mozambicano a riconquistare il territorio un tempo detenuto dai militanti e a stabilizzare Cabo Delgado per un certo periodo, ma visti i recenti attacchi di Aprile 2024, l’insurrezione è tutt’altro che debellata. In sostanza, la campagna militare pluriennale non è riuscita a infliggere un colpo decisivo e una recente recrudescenza degli attacchi, col graduale ritiro dei Paesi SADC, suggerisce che i combattenti si stanno riorganizzando.

A gennaio, la SADC ha dichiarato che avrebbe ritirato la forza alla scadenza del suo attuale mandato, il 15 luglio 24. Il Botswana e il Lesotho si sono ritirati ad aprile, mentre Angola e Namibia stanno progressivamente lasciando il paese secondo le scadenze previste.

Il Sudafrica, i cui 1.495 soldati costituiscono i due terzi della missione, sarebbero dovuti tornare a casa nelle prossime settimane, ma con una mossa a sorpresa, il 23 aprile, hanno annunciato che manterranno le sue forze di difesa a Cabo Delgado fino alla fine dell’anno. In effetti, lascerà 200 persone fino al marzo 2025 per affrontare “attività marittime illegali” lungo la costa del Mozambico.

Ad aprile, il Rwanda ha dichiarato di voler aggiungere truppe al suo dispiegamento di 2.500 uomini, secondo i termini di un accordo bilaterale segreto con Maputo. Apparentemente, anche la Tanzania vuole mantenere tra i 400 e i 500 soldati in Mozambico, soprattutto preoccupata per attacchi lampo che potrebbero essere organizzati fra gli 860 km di confine tra i due Paesi.

Di conseguenza, gli accordi militari in corso sembrano destinati a compensare la fine della missione SADC, ma regna l’incertezza sul quadro in cui opereranno le truppe straniere. I funzionari sudafricani affermano che Pretoria sta semplicemente prolungando il turno di servizio dei suoi soldati per organizzare un ritiro ordinato nel corso dell’anno. Le truppe tanzaniane potrebbero rimanere in base a un accordo bilaterale con Maputo o lavorare sotto la bandiera della SADC con il Sudafrica almeno fino a dicembre. In ogni caso, il ritiro delle truppe dei vari Paesi potrebbe comunque avvenire troppo presto rispetto all’attuale situazione.

Dal 2023 in poi, la campagna combinata ha compiuto notevoli progressi, riducendo il numero degli insorti da circa 3.000 a meno di 300, secondo i diplomatici regionali e gli analisti della sicurezza in Mozambico. Le truppe straniere hanno inoltre ripreso il controllo di un numero di aree, sufficiente da consentire il ritorno a casa di oltre mezzo milione di persone dislocate. Due leader militanti di alto livello, uno mozambicano e l’altro tanzaniano, sono scomparsi nel corso del 2023. Le autorità mozambicane, nel frattempo, hanno ripristinato alcuni servizi pubblici in alcune aree precedentemente controllate dagli insorti.

In generale, fra le varie difficoltà della SADC, esiste la mancanza di fondi per la missione. La missione ha, infatti, fatto molto affidamento sui contributi degli Stati membri, ma ha sempre avuto un deficit. Il Sudafrica è quello che ha dato di più, circa 45 milioni di dollari all’anno. Un contributo di 15 milioni di euro da parte del Fondo europeo per la pace per attrezzature non letali con attività di formazione, benché gradito, è stato insufficiente per sostenere operazioni di terra su larga scala. L’Unione Africana, da parte sua, ha fornito attrezzature, ma ha erogato solo circa 2 milioni di dollari attraverso l’Africa Peace Facility per la missione.

Oltre alle carenze finanziarie, la SAMIM ha affrontato diverse altre difficoltà: nonostante i primi successi operativi, le truppe hanno faticato a debellare i piccoli gruppi di militanti sparsi su un terreno accidentato. Sembra ovvio che i numeri della missione sono insufficienti per coprire la sua vasta area di responsabilità, che ha solo poche strade decenti. Le forze sudafricane non hanno quasi più elicotteri funzionanti e non sono in grado di condurre operazioni aeree. La mancanza di attrezzature affidabili e di pezzi di ricambio ha fiaccato il morale delle truppe, che preferiscono rintanarsi nelle loro basi piuttosto che dare la caccia a unità sempre più mobili di militanti.

Il rapporto di lavoro con le forze mozambicane a Cabo Delgado ha rappresentato un’altra sfida: scarsamente addestrati e sottopagati, i mozambicani si aspettavano che le truppe del Rwanda e della SADC prendessero il comando nell’affrontare gli insorti. Ufficiosamente, funzionari della SADC si sono lamentati amaramente della mancanza di comunicazione e cooperazione da parte dell’esercito mozambicano che, secondo loro, ha reso quasi impossibile la condivisione di informazioni. La SAMIM ha incontrato ostacoli simili nelle sue attività non militari.

L’esercito mozambicano continua inoltre a dover fare i conti con la carenza di materiale e con le difficoltà di rifornimento delle unità dislocate in avanti. Il governo ha chiesto all’Unione Europea più equipaggiamento militare, ma Bruxelles è riluttante ad accettare. Dal 2022, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno addestrato forze di reazione rapida (QRF) nell’esercito, nella marina e nell’aeronautica. Le QRF dovrebbero assumere un ruolo di primo piano nella lotta agli insorti a partire da dicembre, ma gli scarsi risultati dell’esercito in termini di pianificazione e logistica fanno sì che queste forze speciali possano soffrire di una mancanza di supporto e rifornimenti critici una volta diventate operative.

Tuttavia, il governo di Maputo sembra abbastanza soddisfatto dello stato delle cose a Cabo Delgado, essendo più fiducioso dei Paesi vicini di poter respingere una recrudescenza jihadista con l’aiuto del Rwanda e, in misura minore, della polizia comunitaria.

La decisione di mantenere le truppe rwandesi nelle zone chiave di Palma e Mocímboa da Praia, nonché nei pressi delle miniere di grafite di Ancuabe, sembra chiaro che il governo ha fatto della salvaguardia delle sue rosrse naturali una priorità. Nell’ultimo anno, TotalEnergies ha valutato se riaprire il progetto del gas, ma la valutazione dell’azienda sulla situazione della sicurezza resta negativa. In caso di maggior mancanza di truppe, il progetto del gas potrebbe tornare a essere un bersaglio per l’insurrezione.

A questo punto l’ago della bilanca da un punto di vista militare, sembra essere il Rwanda; la sua presenza in Mozambico ha suscitato poche reazioni sul piano dei diritti umani, poiché le truppe rwandesi sono ben disciplinate e hanno un buon rapporto con i civili. Tuttavia, vari Paesi UE continuano a temere che Kigali stia intervenendo a Cabo Delgado non solo per stabilizzare la provincia, ma anche per promuovere i propri interessi economici; il Rwanda, attraverso Crystal Ventures, società che rappresenta il braccio d’investimento del partito al potere, è coinvolto in una serie di attività in Mozambico, tra cui l’estrazione mineraria, l’edilizia e la sicurezza privata.

Dal punto di vista del Rwanda, nuovi fondi UE sembrano l’unica soluzione per continuare l’intervento. In precedenza, il Rwanda ha già ottenuto un contributo di 20 milioni di euro dal Fondo europeo per la pace, in scadenza di rinnovo, ma gli Stati membri dell’UE sono in disaccordo sulla richiesta, dato il sostegno di Kigali al movimento ribelle M23 nella RDC orientale.

Marco Tamburro

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La Wagner: Africa terreno di conquista

Marco Tamburro

La Wagner: Africa terreno di conquista

Le attività in Africa e l’ascesa della Wagner di Prigozhin

Dal 2017, la Russia ha ampliato in modo aggressivo la sua presenza militare in Africa attraverso il Gruppo Wagner, un insieme di società di facciata e di gruppi di mercenari russi precedentemente di proprietà del defunto uomo d’affari Yevgeny Prigozhin. Anche nel Congo orientale, l’entusiasmo è palpabile per i “russi”, un termine generico per indicare i circa 1.000 mercenari dell’Europa dell’Est di stanza a Goma, e per il governo russo, che a marzo 2024 ha dichiarato di aver approvato un accordo provvisorio di cooperazione militare con Kinshasa.

Dal 2022, quest’area è colpita da uno dei conflitti più catastrofici del mondo. Con l’aiuto velato del Rwanda, la milizia dell’M23 ha violentato e massacrato la provincia del Nord Kivu e si è già avvicinata a più riprese alla capitale regionale Goma, come già accaduto diverse volte nello scorso decennio.

Mentre i Paesi occidentali sanzionavano Mosca dopo l’annessione della Crimea nel 2014, il Cremlino ha iniziato a spingere per firmare accordi di cooperazione militare con varie nazioni africane. Tra questi, un accordo militare del maggio 2019 con il Congo-Brazzaville/Repubblica del Congo, che ha visto la Russia inviare ‘’consiglieri’’ militari nel Paese e contribuire alla manutenzione delle sue attrezzature di fabbricazione sovietica. Il Cremlino ha affermato di aver siglato un accordo simile con il Congo DRC ad inizio 2024.

La posizione degli Stati Uniti

Gli Stati Uniti hanno designato il Gruppo Wagner come organizzazione criminale transnazionale nel gennaio 2023 e il Tesoro ha sanzionato persone e società collegate.

Negli ultimi cinque anni, le truppe di Wagner sono state individuate in Mali, Sudan, Repubblica Centrafricana, Libia e Mozambico e i suoi mercenari sono stati accusati di torture, stupri, rapimenti di bambini ed esecuzioni sommarie di civili oltre che contrabbando di oro e sfruttamento illegale di minerali, utilizzando il Camerun come hub logistico e di trasporto. Il gruppo si è anche impegnato in ingerenze elettorali (attraverso AFRIC, la falsa organizzazione di monitoraggio elettorale di Prigozhin) in Congo, Zimbabwe, Madagascar, Mozambico e Sudafrica.

A maggio 2023 si riteneva che la Wagner avesse sul campo circa 5.000 mercenari di stanza in Africa, molti dei quali ex soldati e detenuti russi. Il Gruppo Wagner e altre forze e “consiglieri” emergenti sostenuti dallo Stato russo sfruttano le risorse e le popolazioni dei Paesi africani per il loro tornaconto personale, visto che le risorse naturali diventano l’unico mezzo a disposizione degli Stati per pagare il costoso supporto militare della Wagner. 

‘’Sono una minaccia per la stabilità e la prosperità dei Paesi in cui sono presenti”, ha dichiarato un portavoce del Dipartimento di Stato americano in un comunicato.

E se la Russia può aver compiuto un’impressionante impresa di pubbliche relazioni anche in Congo DRC, convincendo i cittadini congolesi di essere un vero alleato, le azioni delle sue forze mercenarie in altre parti del continente raccontano una storia molto diversa. “Queste forze non riducono il terrorismo, ma piuttosto esacerbano la minaccia perseguendo tattiche draconiane e violente. Ciò si traduce in un drammatico aumento della violenza ciclica”, ha proseguito il Dipartimento di Stato.  

Da Wagner ad Africa Corps

Prigozhin e altri comandanti della Wagner sono morti nel quadro di un’esplosione che ha fatto precipitare il suo jet privato nell’agosto 2023, due mesi dopo aver lanciato un ammutinamento di breve durata che Putin ha definito un atto di tradimento. Wagner è stato sciolto alla fine del 2023 e i suoi combattenti sono stati trasferiti a unità sotto il controllo delle forze armate russe.

Ma il Gruppo Wagner continua a vivere in Africa e, secondo quanto riferito, è ora controllato direttamente dal Cremlino sotto il nuovo nome di Africa Corps.

A febbraio 2024, la BBC ha riferito che il generale Andrei Averyanov, capo di un’unità di intelligence militare russa specializzata in “omicidi mirati e destabilizzazione di governi stranieri”, ha assunto la guida di Africa Corps e sembra che stia ampliando gli accordi con Capi di Stato e giunte militari in Libia, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Mali e Niger per contribuire a consolidare il controllo in cambio della cessione di diritti minerari alla Russia. Lo scorso giugno il Cremlino ha dichiarato che lo Stato russo non ha alcun ruolo negli interessi commerciali multimilionari di Wagner in Africa.

Marco Tamburro

Gaetano Fasano cover

I mandati d’arresto della Corte penale internazionale e l’immunità per i Capi di Stato e di Governo: dal caso al-Bashīr al caso Putin

Dott. Gaetano Fasano.

Laureato con lode in Scienze dell’Amministrazione e della Sicurezza presso l’Università degli Studi di Roma – Unitelma Sapienza. Funzionario presso l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, specializzato in attività antifrode e controlli, cooperazione internazionale e scambi informativi. Vanta una ultraventennale esperienza nella Pubblica Amministrazione, sia nel comparto sicurezza che nel comparto IT. Attualmente impegnato in percorsi formativi riguardanti le relazioni internazionali nel settore commerciale. La passione per le discipline internazionalistiche e per l’attualità sociopolitica, unita alla competenza lavorativa anche in ambito di polizia giudiziaria, lo hanno condotto ad approfondire gli sviluppi degli eventi del conflitto russo-ucraino, in particolare sul piano delle responsabilità penali e delle competenze in merito all’accertamento delle stesse da parte della Corte penale internazionale.

I mandati d’arresto della Corte penale internazionale e l’immunità per i Capi di Stato e di Governo: dal caso al-Bashīr al caso Putin Con un comunicato stampa del 17 marzo 2023, la Corte penale internazionale ha reso noto di aver emesso un mandato d’arresto nei confronti del Presidente della Federazione Russa, Vladimir Vladimirovich Putin, e della Commissaria per i diritti dell'infanzia presso l'ufficio del Presidente della Federazione Russa, Marija Alekseyevna L’vova-Belova, con l’accusa di crimini di guerra di deportazione e trasferimento illegale di popolazione, in particolare bambini, dalle aree occupate dell’Ucraina alla Federazione Russa. Ma cosa vuol dire, nello specifico? Quali effetti, all’atto pratico, possono avere questi mandati d’arresto? E poi: cos’è e in base a quali presupposti agisce la Corte penale internazionale? Nel tentativo di offrire una risposta a questi e ad altri interrogativi, appare opportuno operare una descrizione del percorso storico che ha condotto alla “instaurazione”, nel 1998, della Corte penale internazionale, nonché anche una rappresentazione delle attività poste in essere dalla Corte da quando ha iniziato la sua attività nel 2002, soffermandosi su alcuni “casi” che hanno permesso l’affermazione di taluni principi fondamentali su cui basare le decisioni della stessa Corte. Partendo dalle prime esperienze di “tribunali penali internazionali”, quali quello di Norimberga e di Tokyo, orientati a sottoporre a giudizio i responsabili dei più gravi crimini perpetrati nel corso della Seconda guerra mondiale, a loro volta ispirati dalle risultanze del Trattato di Versailles del 1919, che intendeva sottoporre a un processo sovranazionale l’imperatore tedesco Guglielmo II, accusato di crimini contro la pace e contro l’umanità, si giunge fino agli eventi della cosiddetta ”Operazione militare speciale in Ucraina” del 2022, nonché ai fatti immediatamente successivi, passando dallo storico evento legato alla convocazione della Conferenza dei plenipotenziari e alla firma dello Statuto di Roma nel 1998 (atto con cui è stata sancita la nascita della Corte penale internazionale) e dalle proteste dell’”Euromaidan” del 2014, di cui si analizzano le origini e le caratteristiche. Si analizzano e si descrivono, inoltre, le prime attività significative della Corte, non solo in termini temporali ma anche e soprattutto per quel che riguarda la rilevanza che alcuni fatti attenzionati dalla stessa hanno assunto nelle sue determinazioni successive. A tal proposito, non si procede solo e soltanto ad esporre e analizzare le prime attività di indagine della Corte e le sue prime condanne o assoluzioni, ma si pone particolare attenzione agli eventi che hanno visto coinvolto l’ex Presidente del Sudan Omar Hasan Ahmad al-Bashīr, destinatario di due diversi mandati d’arresto da parte della Corte per crimini di guerra, contro l’umanità e di genocidio, che sarebbero stati posti in essere nel noto “teatro” del Darfur nel corso dell’omonimo conflitto. Esaminando la specifica circostanza e gli effetti che tali mandati di arresto hanno avuto sul piano internazionale, soprattutto alla luce di quanto (non) fatto in termini di cooperazione da parte di vari Stati parte dello Statuto di Roma, tra cui in particolare il Sudafrica, si arriva infine a trattare dei parallelismi e delle divergenze tra il caso al-Bashīr e il caso Putin, ponendo l’attenzione in particolar modo sul tema della responsabilità, con un focus sulle differenze tra i due diversi soggetti destinatari dei mandati d’arresto (Putin e L’Vova-Belova), nonché sulla questione delle immunità per i Capi di Stato e di Governo previste e regolate dagli articoli 27 e 98 dello Statuto di Roma.

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Nuova ondata di violenze in Mozambico: l’orrore non si ferma in Cabo Delgado, TOTAL rinvia approvvigionamenti e trivellazioni

Marco Tamburro

Nella seconda metà del 2023, si erano ridotti di molto gli attacchi del movimento terroristico di ispirazione islamica operativo nel Nord del Mozambico; molti distretti erano considerati sicuri dopo diverse analisi di sicurezza e sembrava che la TOTAL fosse finalmente pronta a riprendere la catena di approvvigionamento logistica per portare avanti il progetto di trivellazione del giacimento di gas di Afungi.

Invece, complice anche il progressivo ritiro del contingente delle forze sudafricane (Sud Africa, Zimbabwe, Botswana) SAMIM, da dicembre 2023, circa 112.000 persone sono state nuovamente costrette a fuggire da diversi distretti a causa dei nuovi attacchi. Inizialmente, gli attacchi si erano concentrati nei distretti ‘’storicamente difficili’’ per l’armata mozambicana, ossia quei distretti del nord est che non sono mai più stati totalmente sotto il controllo delle autorità mozambicane, come Quissanga, Macomia e Mocimboa da Praia, in particolare zone rurali.

Tuttavia, con la diminuzione degli effettivi SAMIM e le truppe rwandesi limitate al controllo della zona nell’estremo nord di Palma-Afungi, le forze mozambicane si sono ritrovate nuovamente a cercare di controllare una grande area fra Montepuez e Pemba.

Sembra ormai scontato che anche il non state armed group di ispirazione islamica abbia la sua rete di informatori, che non hanno tardato ad informare il gruppo dirigente operante fra Mozambico e Tanzania, che la diminuzione dei militari SAMIM e la fragilità delle truppe mozambicane potevano essere nuovamente sfruttati. Di conseguenza, gi attacchi si sono prima concentrati nelle zone dove le forze mozambicane non erano più molto supportate dalla SAMIM, con gli islamisti che hanno occupato diverse isole delle Quirimbas, intorno all’isola di Ibo.

Successivamente, a fine febbraio, un’ondata di attacchi si è concentrata nel distretto di Chiure, coinvolgendo anche le zone frontaliere fra le province di Cabo Delgado e Nampula. Nello spazio di cinque giorni a partire dallo scorso 24 febbraio, circa 65.000 persone sono fuggite in diverse direzioni dalla zona rurale del distretto di Chiure. La cosa, ancora più preoccupante, non sono stati solo gli attacchi in rapida successione nella zona di Chiure, ma anche una sostanziale assenza della risposta militare delle forze mozambicane.

In alcune zone, gli islamisti sono addirittura arrivati a prendere il controllo delle strade principali e chiedere una tassa per il passaggio dei trasporti pubblici senza usare la violenza contro la popolazione civile.

Questa sorta di riattivazione di gruppi numerosi (si stima 20-40 per attacco) sembra confermare le analisi del passato che puntano verso questo sistema di ‘’attivazione-riattivazione’’ dei combattenti che vengono informati, riforniti e guidati da un gruppo dirigente che ha la possibilità di richiamare questi individui che, probabilmente, alla fine delle ondate di attacchi, tornerà nei distretti di provenienza e riprenderà la vita da civile.

Marco Tamburro

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Monitoriamo il Piano Mattei: cosa sta succedendo in Africa?

Marco Tamburro

Con il coinvolgimento diretto dei più alti rappresentati per l’AICS (Agenzia italiana cooperazione allo sviluppo) e la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo del MAE, il piano Mattei ha conosciuto un importante sviluppo nel progetto di implementazione.

A marzo 2024, un avanzamento significativo si è registrato con diverse missioni di esperti e manager del ‘’sistema Italia’’ per portare avanti i colloqui con il personale dell’AICS già presente in loco coinvolgendo anche diversi Ministri dei Paesi africani partners.

Sul versante dell’Africa dell’Est, sembrano chiari gli obiettivi per il piano Mattei: i Paesi prioritari saranno Kenya, Tanzania e Mozambico, con anche il coinvolgimento dell’Uganda. Un obiettivo strategico è quello di, innanzitutto, capire con i ministri dei paesi africani, quali sono le potenziali collaborazioni da introdurre e, soprattutto sul versante settore privato, quali possono essere i settori economici su cui investire. A questo proposito, sembra quindi confermato un maggior interesse del governo italiano a coinvolgere le imprese italiane negli investimenti all’estero e garantire un supporto attraverso le ONG italiane per i bisogni di emergenza o sviluppo a cui rispondere.

A fine Marzo 2024, a Dar Es Salaam in Tanzania, alla presenza di Massimo Riccardo (inviato speciale del Ministro Tajani per il Piano Mattei) e il Ministro plenipotenziario Stefano Gatti per la Direzione generale di cooperazione allo sviluppo, insieme all’Ambasciatore italiano e l’AICS Kenya-Tanzania, hanno lanciato le consultazioni per l’est Africa. Merita un approfondimento ulteriore il caso della Tanzania che sarà progressivamente integrata nelle priorità dell’Italia per il Piano Mattei, in particolare lanciando investimenti nel settore del caffè (con l’appoggio di Illy ad esempio) e il turismo (rappresentanti di Franco Rosso erano a Dar Es Salaam) per la rilevanza di Zanzibar in questo senso.

A questo punto si delineano alcuni punti chiave per il cosiddetto ‘’sistema Italia’’: i fondi che saranno annualmente disponibili per le sedi AICS che contribuiranno al budget globale ‘’Mattei’’ saranno oggetto di implementazione da parte delle ONG italiane nei settori dove i bisogni saranno più urgenti (salute, sicurezza alimentare, impiego dei giovani, genere, sviluppo rurale).

Sul versante delle imprese, il Piano Mattei sembra voler garantire ai marchi italiani un accompagnamento istituzionale forse mancato in passato, per poter avere una via preferenziale nei rapporti con gli Stati africani ma anche scongiurare che complicazioni burocratiche o barriere socioeconomiche possano in qualche modo frenare gli investimenti.  A questo punto però entra in gioco Cassa, Depositi e prestiti: saranno disponibili questi finanziamenti per le imprese private che potranno proporre dei progetti nel quadro del Piano Mattei nei paesi prioritari indicati e che porteranno dei benefici reciproci. Il ruolo di Cassa Depositi e prestiti da quindi un ulteriore spunto di analisi: se il loro ruolo è quello di garantire dei prestiti da rimborsare a seguito del successo dell’investimento, vuol dire che il totale dei fondi del Piano Mattei potrebbe potenzialmente raggiungere i 5.5 miliardi di euro annunciati, ma molto dipenderà dall’interesse che le imprese italiane manifesteranno per il progetto. Ovviamente, crediamo che il Governo italiano non si farà trovare sprovveduto, e cercherà in ogni modo di supportare e spingere innanzitutto i grandi marchi italiani (vedi Illy per il caffè nell’est dell’Africa) ad investire (ossia richiedere prestiti) nel progetto.

Due punti quindi da monitorare per il futuro: il bilanciamento tra la disponibilità dei fondi AICS e le iniziative del settore privato e soprattutto il coinvolgimento delle imprese private e l’esigenza di misruare la loro convinzione di investire nel Piano Mattei ‘’rischiando’’ dei prestiti importanti presso la Cassa.

Marco Tamburro